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Regione, l’“all-in” di Miccichè su (o contro) Musumeci spacca Forza Italia

Di Mario Barresi |

Nello Musumeci ha ancora un vantaggio non indifferente: per l’eventuale “dopo di lui” politico, finora, non c’è alcuna alternativa concreta. Epperò il preavviso di sfratto da Palazzo d’Orléans notificato ieri da Gianfranco Miccichè («Nello sta facendo capire in tutte le maniere che non lo vuole fare più», ha detto il presidente dell’Ars sull’ipotesi di bis del governatore uscente) rompe quello che nel centrodestra finora era un tabù. Almeno formalmente, perché nei caminetti della coalizione (e soprattutto in un gruppo, sempre meno ristretto, di frondisti) da tempo si affronta il tema del candidato nel 2022.

Da Musumeci, com’è comprensibile, nessuna reazione ufficiale. Dalla domenica del presidente, trascorsa con poche ore di relax in campagna a Militello prima di qualche incontro al PalaRegione di Catania, emerge soltanto una netta «irritazione» (così la bolla chi l’ha sentito) più che per la messa in discussione della ricandidatura, per il riferimento di Miccichè alla «totale mancanza di etica». Un’onta, per chi da sempre ostenta il valore di «persona perbene», fino a farne quasi uno status di superiorità morale non sempre gradito agli alleati.

Ma è chiaro come l’esperienza di governatore sia a un punto di svolta. L’inchiesta sui dati Covid, oltre a costringerlo a sacrificare il suo braccio destro Ruggero Razza, segna un cambio di trend: la gestione della pandemia, per Musumeci, s’è trasformata da punto di forza (misurato dai sondaggi che fino all’anno scorso premiavano la sua linea dura) in punto di debolezza. Un’inerzia che né la capacità oratoria né le accuse alle opposizioni riescono più a invertire. Anche perché il ColonNello, al di là della difesa d’ufficio degli alleati all’Ars nel dibattito sull’indagine-terremoto, oggi sembra più isolato.

Fino al punto di non essere ricandidato? Questo è presto per saperlo, anche se l’uscita di Miccichè (che venerdì scorso a Catania ha visto più interlocutori di peso) sembra innanzitutto un messaggio a chi sta lavorando per l’alternativa a Musumeci: da Fdi all’asse Lega-Autonomisti. «Ancora un nome non c’è, ma al momento giusto si trova», sostiene chi lavora da tempo al progetto. Soltanto ipotesi di fantapolitica, nei chiacchiericci da buvette dell’Ars: dal segretario leghista Nino Minardo (che lavora a testa bassa per rafforzare il partito, ma vuole tenersi fuori da contese e veleni) al grande saggio lombardiano Roberto Di Mauro (anti-personaggio per indole e per riconoscibilità), dal jolly Cateno De Luca (meno kamikaze e più astuto di quanto voglia far sembrare) al raffinato tessitore meloniano Raffaele Stancanelli (corteggiato, ma senza successo, da chi gli riconosce il profilo giusto). Insomma, c’è la fronda ma manca il candidato.

Da questo ambiente, ieri, Miccichè ha ricevuto molti segnali di gradimento, fra cui uno in cui gli si riconosce il ruolo di «regista della coalizione». Adesso tocca al viceré berlusconiano di Sicilia. Se, come proclamato, riuscisse a «convocare una riunione di maggioranza» chiuderebbe il cerchio delle parole con i fatti. Certo, Musumeci – che nel 2017 ha riunito il centrodestra e vinto le elezioni – non si farà “commissariare” così facilmente. Ma quando Miccichè parla di mancata «disponibilità all’ascolto» del governo e del presidente, adombrando la tesi che l’Ars sia considerata «un inutile fastidio», tocca un nervo scoperto della maggioranza. L’incomunicabilità. Fra assessori e deputati regionali, ma soprattutto fra governatore e partiti. Musumeci – che ha più volte affermato di essere «impegnato nel risolvere i problemi della Sicilia», senza tempo né voglia per «fare i vertici di maggioranza» – avrà la capacità di abbattere il muro del silenzio per tenersi la leadership politica in quest’anno e mezzo di legislatura restante? Qui è decisivo il ruolo di Razza, che spesso e volentieri ha supplito anche ai deficit caratteriali del governatore, parlando di tutto con tutti: dopo le dimissioni da assessore, che in Presidenza continuano a considerare una parentesi momentanea, potrà avere un ruolo politico, magari guidando DiventeràBellissima?

Ma l’effetto più devastante dell’intervista è stata dentro Forza Italia. Un aneddoto-simbolo: Miccichè è stato cacciato dalla chat WhatsApp “FI Sicilia”. A pigiare il tasto “rimuovi” è stata Giusi Bartolozzi, deputata compagna di Gaetano Armao, definito dal coordinatore regionale un assessore che non ha portato «guadagno» al partito, uno che «è lì gratis senza aver preso un voto». Significativa la reazione di Michele Mancuso, vicecapogruppo all’Ars, che ha abbandonato il gruppo (di WhatsApp) per protesta: «Smettiamola di prenderci in giro e ognuno scelga da che parte stare. Se qualcuno pensa ad una Forza Italia senza Gianfranco vada a fare in c… veramente. Siamo ancora in tempo a tornare a parlare. Ma solo chi ne ha diritto! I miracolati a casa!».

Questo, dunque, il clima che si respira nel partito. Armao non reagisce ufficialmente, ma già di buon mattino l’«ultima follia» di Miccichè è notificata al coordinatore nazionale Antonio Tajani, big sponsor di chi vuole defenestrare il coordinatore regionale. Marco Falcone, accusato di «piagnucolare da Gasparri» per tenersi il posto in giunta, lascia una traccia british della sua profonda ira: «Leggo dal giornale che Miccichè, commissario regionale del mio partito, sostiene che finora non mi sia meritato di fare l’assessore. Che dite, secondo voi è così…?», scrive su Fb, ottenendo un migliaio di risposte a suo favore. Per l’assessore etneo, ora, è guerra aperta.

Armao e Falcone (fedelissimi di Musumeci, che la scorsa settimana ha ricevuto una telefonata da Silvio Berlusconi per blindarli entrambi) sono i due scalpi che Miccichè non è riuscito a ottenere da Arcore, pur ricevendo in cambio il rinvio della proposta di un triumvirato per sostituirlo alla guida del partito in Sicilia. Adesso il presidente dell’Ars alza la posta: un segnale di forza o di debolezza? In assenza di note ufficiali di sostegno (l’unica a sbilanciarsi è la deputata regionale Marianna Caronia, per la quale «l’ultimo dei nostri problemi è parlare di candidature a elezioni che si svolgeranno tra un anno e mezzo»), Miccichè gioca l’all-in: o con me contro di me. Ma lo fa perché si sente coperto dai numeri di un partito che resta un “granaio” di voti a livello nazionale? «Dobbiamo solo decidere se fare una lista del 25-30 per cento o ci accontentiamo del 15», scandisce. Sottintendendo, nella prima ipotesi, quel super colpo di mercato – il renziano Luca Sammartino – sul quale sotto il Vulcano s’è avvelenato lo scontro con Falcone (ma anche con Alfio Papale), che avrebbe giurato ai suoi che «fino quando ci sarò io, quello non entrerà mai nel nostro partito».

Oppure, ultima ipotesi appena sussurrata da chi ha captato alcuni movimenti più recenti a Palazzo dei Normanni, il “gioco a rompere” del leader nasconde un piano B, geniale quanto ardito, che il «compagno Gianfranco», da studente militante in Lotta Continua, ha in serbo da qualche tempo?

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