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Regionali, Fava pronto a tornare in campo: «Ecco il mio patto di libertà coi siciliani»

Di Mario Barresi |

Onorevole Fava, fra lei e Musumeci, nella campagna elettorale del 2017 e anche nei primi mesi di legislatura, sembrava esserci un patto tacito di non belligeranza. Dopo il reciproco fair play, oggi lei è uno dei più pesanti accusatori del governatore. È cambiato Fava o è cambiato Musumeci?

«Io nei confronti dell’uomo continuo ad avere il rispetto di sempre. Sulla sua esperienza da governatore ho un’incommensurabile delusione. Lui è partito da un’idea autoassolutoria: “Io sono una persona perbene”. Il che è una semplificazione, anche un’ingenuità. Essere perbene è una precondizione morale, non una garanzia di qualità politica e amministrativa. Musumeci s’è avvitato su questa presunzione e più il suo governo s’impantanava, più si incartava tra gli ordini ricevuti e l’incapacità di azione e più questo senso di solitudine sfociava in un’involuzione».

Un’involuzione politica, allora…

«Anche umana: quello di Musumeci è il delirio di Macbeth, che lo porta poi a usare questa prosa grottesca nella sua teatralità: le iene e i leoni, Razza come Barabba, gli ascari… Una mancanza di rispetto anche nei confronti dei suoi, perché trattare chiunque non la pensi come lui come un ascaro, con un linguaggio da Ventennio per mostrare il suo aristocratico disprezzo, lo considero un giudizio ingeneroso. Chi ha manifestato di non essere allineato, nel centrodestra, l’ha fatto con garbo e motivazioni. Trattarli come traditori, come ascari, mi sembra un modo per trasformare la politica in un atto di fede, una sorta di tributo vassallatico».

Ma non c’è davvero nulla da salvare delle cose fatte da questo governo?

«Se rileggo il programma di Musumeci è pieno di cose tutte condivisibili. Se vado a vedere quello che è stato realizzato trovo solo l’ignavia e l’incapacità di chi si rende conto che dei rifiuti non ci si può occupare perché si toccano corde sensibili e monopoli consolidati, che le 14 partecipate non si smantellano per non turbare sonni ed equilibri, che ci sono mille chilometri di strade che non portano da nessuna parte ma si deve comunque evocare il Ponte. È il modo con cui Musumeci ha reso sovrano il sentimento vuoto delle parole: una proposta bella, perché scritta in caratteri tipografici seducenti, accompagnata da un’oratoria trascinante. Ma, dopo quasi quattro anni, se lei chiedesse a Musumeci quale dei suoi punti è stato realizzato, lui per onestà dovrebbe rispondere: nessuno!».

In cosa ha sbagliato, dal punto di vista politico?

«Musumeci ha costruito una coalizione a tavolino, dove si pesano forze e appartenenze, ceto politico, richieste, pretese e assessorati. Una magnifica, e immobile, macchina da guerra. Che può vincere, ma non saprà mai governare. Perché, appena consumato il rito della vittoria, è costretta a sedersi a tavolino per contrattare ogni singolo atto».

Un rischio che corre anche chi, dall’altra parte, vuole costruire un’alternativa per il 2022.

«Io penso che questo rischio noi dobbiamo evitarlo. Il che non vuol dire costruire percorsi anarchici, ma mettere assieme intanto forze politiche coerenti e con coerenza. E quindi penso al Pd, ai cinque stelle, alla sinistra e anche a gruppi di moderati che sentono tutta la fatica, l’inanità, la delusione e l’umiliazione di questa stagione di governo. Però bisogna andare oltre. E parlare a una parte significativa, abbondante, di siciliani che sanno di non appartenere. Ai quali tu non puoi parlare scolasticamente di programma, ma anzitutto di progetto. Non la somma delle cose che vuoi realizzare né la collezione delle belle bandiere di partito, ma una scommessa esistenziale, un patto di verità che costruisci con tutti i siciliani».

Il fronte giallorosso, però, sembra fermo alla cartolina del cosiddetto “modello Termini”.

«Si deve ripartire da lì, ma parlando a tutti. Per fare questo, ancor prima di un programmino ben stilato, servono identità, emozione, l’anima di un progetto civile: liberare la Sicilia da riti, liturgie, lamentazioni, giustificazionismi ed elemosine. Un elenco di cose da fare, certo, ma anzitutto il modo in cui volerle fare. La prima condizione è l’assoluta autonomia di una proposta di governo rispetto alle greppie dei potentati locali. O tu riesci a smarcarti – ed è il senso di questa sfida, che è un sentimento quasi animale, viscerale, profondo – dai tanti comitati d’affari che in Sicilia sono da sempre un governo parallelo e trasversale, oppure non potrai governare, anche se sei una persona perbene. Bisogna costruire verità e autonomia nel rapporto con la propria comunità: è una priorità per un presidente della Regione e riguarda la squadra che costruisci, gli investimenti umani che fai, il modo in cui tu ritieni di dover rappresentare le forze di una coalizione senza esserne prigioniero».

Sembra il manifesto di Fava candidato governatore. Ha deciso di riprovarci?

«Io ci sono. Fra pochi giorni compio 64 anni, faccio il giornalista da 40 anni e politica da 30 anni. Non sono un esponente di partito, non metto a disposizione forze, appartenenze, sigle. E non voglio sentirmi espressione di un segmento della politica. Io mi sento Claudio Fava, con i miei limiti e la mia forza. Devo saper interpretare e rappresentare un sentimento e un bisogno profondo di questa terra: altrimenti questa operazione sarebbe inutile. E glielo dico con l’umiltà, la preoccupazione e anche con l’esitazione di chi è tornato in Sicilia dopo molti anni a camminare altrove. Ho fatto l’inviato in cento Paesi del mondo, la mia vita politica l’ho vissuta fra Roma e Bruxelles. Sono tornato quattro anni fa con l’intenzione di fare di quest’esperienza alla Regione l’elemento centrale della mia esistenza».

I bookmaker palermitani, dopo la sua elezione all’Ars, erano convinti che si sarebbe annoiato e dimesso in pochi mesi. E invece no…

«Dal 2017 sto facendo il mio lavoro all’Ars non solo con rigore e disciplina, ma per capire se dopo sessant’anni sarei riuscito a ricostruire un rapporto di verità fra me e questa terra. Che io non ho mai amato a prescindere. Per la Sicilia non ho i sentimenti un po’ glabri e patriottici di certa retorica meridionalistica, ho lo stesso rapporto che gli ebrei hanno col loro dio: gli danno del tu, litigano, s’incazzano, subiscono la collera ma al tempo stesso lo incalzano. Per me tornare qui è stato provare a ricostruire, avendo archiviato un pezzo della mia storia personale e anche emotiva, un rapporto di verità con questa terra».

Non è un’altra sfida identitaria e di testimonianza, non è più Fava cavaliere solitario contro il resto del mondo?

«Io in questa storia voglio starci perché non penso di rappresentare solo una parte, né voglio farlo. Sono un uomo di sinistra, ma ho bisogno di andare oltre. E di partire anche da altre premesse. Una è la stessa di Musumeci: sono una persona perbene. Ma sono anche un uomo libero. E vorrei governare questa terra da uomo libero, responsabile, umile ma libero. La mia è una libertà rispetto ai molti sistemi di potere rimasti intatti, alle rendite di posizione, alle riverenze… Questo ho intenzione di fare: non da solo ma assieme ai tanti con cui abbiamo lavorato in questi anni e ad altri ancora. La mia intenzione c’è. E non è quella di un’avventura solitaria, né di aspettare le piccole quadrature del cerchio costruite nelle botteghe romane».

Infatti. Magari il candidato del fronte giallorosso lo decideranno a Roma, a suo discapito…

«Spesso s’immagina di costruire alleanze come se fossero modellini di ponte in cartongesso: mettiamo un traliccio qui, un tirante lì, fabbrichiamo il modellino perfetto… Ma è un bel progettino costruito a tavolino, come tanti prodotti pensati male nelle stanze romane e siciliane. Io penso alla qualità delle persone più che alla strategia delle formule. Serve un linguaggio nuovo, per cui non vai a una manifestazione perché fra le tante bandiere ci trovi la tua, ma perché trovi le tue parole, perché senti che ti appartengono».

Un patto in cui, ci permetta, deve però esserci un minimo comune denominatore politico…

«Sì, le ragioni della migliore parte riformista della politica siciliana, quella attenta alle disuguaglianze e al mezzo milione di nuovi poveri, quella convinta che questa è una terra da governare ma anche da cambiare. Vanno cambiati i rapporti di forza, i rapporti sociali, va costruito un tessuto di dignità elementari che oggi non ci sono. Se in Sicilia solo una mamma su sette ha diritto al nido per i figli, mentre il rapporto in Emilia è di quattro su cinque, un motivo ci sarà».

Non teme il fuoco amico dalle boscaglie di quell’antimafia liturgica che non tollera le sue eresie?

«Occuparsi di mafia non è un pranzo di gala. Siamo in Sicilia e non nelle Fiandre, e i temi hanno a che fare con i diritti e i bisogni elementari, per cui i nemici sono sempre tanti e gli spazi di neutralità sono minimi. Ma rivendico che, in un’Antimafia composta all’80 per cento di commissari di centrodestra, tutte le relazioni sono state approvate all’unanimità. Dietro questa condivisione del lavoro c’è stata anche la costruzione di rapporti umani di stima reciproca. Io esco da quest’esperienza avendo amici in parti politiche lontanissime dalla mia. E lo considero, dal punto di vista personale, un privilegio».

Questo Fava “buonista” con gli avversari politici è un’altra sorpresa…

«Dall’altra parte non c’è il demonio, ma un governo che ha fallito con un presidente onesto ma rassegnato alla propria solitudine e alla propria collera. Ma molti dei suoi sono persone gradevoli, taluni anche politicamente così capaci che non mi dispiacerebbe averli accanto. Per capirci, una delle persone che io stimo di più, dal punto di vista intellettuale e giornalistico, e con cui ho spesso elementi di sintonia, è Pietragelo Buttafuoco, pur avendo percorsi e storie politiche diversissime. Poterci dire di pensarla allo stesso modo su alcune cose fondanti ci fa capire come alla fine sentirti libero, pur senza rinnegare le tue ragioni e la tua identità, non è qualunquismo da banalizzare. Ma una grande risorsa umana».

Ultima domanda secca: perché i suoi potenziali alleati, ambiziosi e litigiosi, dovrebbero sceglierla?

«Perché possono fidarsi del sentimento con cui affronterei questa sfida, nel quale non c’è alcuna ansia, né urgenza. Se questo è il tempo in cui affrontarla, non voglio tirarmi indietro».

Twitter: @MarioBarresi

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