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L’anima siciliana in un carretto

Di Giovanna Genovese |

«Piccole scatole quadrate, appollaiate molto in alto su ruote gialle, decorate con pitture semplici e curiose, che rappresentano fatti storici, avventure di ogni tipo, incontri di sovrani, ma prevalentemente le battaglie di Napoleone I e delle crociate; perfino i raggi delle ruote sono lavorati. Il cavallo che li trascina porta un pennacchio sulla testa e un altro a metà della schiena (…). Quei veicoli dipinti, buffi e diversi tra loro, percorrono le strade, attirano l’occhio e la mente e vanno come dei rebus che viene sempre la voglia di risolvere». “Un rebus che cammina” è la descrizione forse più famosa, senz’altro più originale, che fa Guy de Maupassant del carretto siciliano. Da celeberrimo mezzo di trasporto a oggetto d’arte e artigianato a originale e folcloristica icona della sicilianità. Che custodisce e trasmette straordinari colori e abilità delle maestranze isolane.

L’intagliatore, il fabbro, il “carradore” (colui che unisce tutte le sue parti), “u siddunaru” (chi prepara l’animale da traino – un mulo, un asino o un cavallo – ricoprendolo di ornamenti e di pennacchi): diversi sono i professionisti che lavoravano – e che ancora oggi lavorano – per dare vita a un carretto. Discorso a parte merita la decorazione: una sorta di gara tra le famiglie dell’Isola, che si contendevano gli artigiani più bravi del tempo.

 Negli anni più recenti, questi capolavori di legno in   movimento hanno ispirato l’arte (il pittore Guttuso   l’esponente principe) e la moda (Dolce & Gabbana hanno   trasformato lo stile dei carretti in una collezione dedicata alla   Sicilia). A loro si unisce oggi Giuseppe Giuffrida, 30 anni, da   Trecastagni, “ambasciatore” del carretto nel mondo. E   “coltivatore” di bellezza nonché cultore del gusto. Nipote di   carrettiere, ha deciso di portare avanti la tradizione di   famiglia. «Mio nonno Giuseppe (nella foto, ndr) – si   guadagnava da vivere – spiega – trasportando frumento,   grano, prodotti ortofrutticoli e, poi, anche materiale per   l’edilizia, da un capo all’altro della Sicilia e faceva lunghi   viaggi in occasione della festa di sant’Alfio a cui era molto   devoto, tanto che ha dato il suo nome a mio padre». Una   passione quella di Giuseppe, che nasce dal papà, grande   collezionista di carretti da parata. Per il piccolo di casa Puglisi   è comunque qualcosa di più. Niente tiro, ma promotion di una   tradizione povera e popolare e un modo per rendere omaggio   al nonno e al suo duro lavoro. «Nonno che, negli anni   Sessanta, si convertì all’uso degli automezzi e avviò la sua   piccola impresa di costruzioni. Io, invece, ancora gattonavo   quando morì. In casa si parlava sempre di lui e del suo   “fedele compagno” e così, incuriosito, ho cominciato la mia   indagine storica su questo mezzo di locomozione tanto pratico   e funzionale per i tempi, che nel corso dei decenni si   evolvette trasformandosi in una vera e propria opera d’arte».

 «Il nostro progetto – precisa Giuffrida – il progetto della mia   famiglia, è dunque fare conoscere a tutti l’emblema della   Trinacria. Nasce da qui “Muscà”, Museum of Sicilian Cart , un   museo itinerante del carretto che dopo aver esordito a   Taormina è volato fino a Los Angeles».

Appassionato della storia popolare isolana, Giuseppe Giuffrida oltre a pregiati carretti catanesi e palermitani possiede anche cartelli dell’Opera dei Pupi, dipinti a tempera su carta d’imballaggio del 1933 di Rosario Napoli, considerato dai più il miglior cartellonista catanese. «Una buona parte della mia ricerca – chiarisce – si è svolta sui libri. Ho appreso così che il carretto nasce per il trasporto di prodotti agricoli, in particolar modo dall’entroterra alle città costiere. Al barone francese Gonzalve De Nervo, nel suo diario “Viaggio in Sicilia” (1833), risale la prima testimonianza scritta del tipico carretto decorato. E descrive veicoli, dipinti, a volte di giallo, a volte di blu, raffiguranti volti di santi o della Vergine che servivano da amuleti protettivi».

«Esistono – prosegue Giuseppe Giuffrida – tre stili decorativi principali: il catanese, il trapanese e quello palermitano. Quest’ultimo presenta motivi arabo-normanni, specie le finiture in ferro che richiamano le geometrie arabesche; la pittura è comunque piatta, senza prospettiva; infine, a livello strutturale, il carretto è contraddistinto da una sponda laterale trapezoidale. Invece nella tipologia catanese la pittura ha maggiore profondità e si avvicina di più a uno stile rinascimentale. I suoi elementi decorativi, quali foglie d’acanto, sirene alate, putti, angeli, sono più barocchi. A livello di struttura, la sponda è di forma rettangolare. Inoltre, a Palermo si impiega il giallo come colore di fondo, mentre a Catania è predominante il rosso. Inizialmente le figure appartenevano per lo più all’ambito religioso, poi comparvero scene tratte dall’opera, ma anche da poemi epico-cavallereschi, in particolare l’Orlando furioso».

A cosa servivano le decorazioni pittoriche?«Soprattutto ad attirare clienti, che una volta avvicinatisi per osservare meglio le immagini erano spinti ad acquistare i prodotti. I dipinti inoltre proteggevano il legno con cui veniva realizzato il carretto. Ma un’altra non meno importante funzione era scaramantica e apotropaica: le scene raffigurate (fatti storici, gesta cavalleresche o miti antichi) erano considerate portafortuna in grado di allontanare malasorte e garantire prosperità al proprietario».

Storie meravigliose che raccontano le gesta dei paladini e la bellezza della Sicilia di un tempo rivivono nei disegni ricchi di particolari. Qual era la tecnica utilizzata per decorare i carretti?«Una speciale tecnica del disegno, che consisteva nel ricalcare immagini da foto, illustrazioni o libri attraverso una carta velina semitrasparente. Una volta ricalcata l’immagine, i fogli venivano applicati al carretto con l’olio di lino e i contorni delle figure, microforati, permettevano il passaggio della polvere di minio. Attraverso la tecnica dello spolvero, il disegno era conferito dalla carta velina alla sponda del carretto, dove veniva rappresentata la storia, successivamente dipinta dal pittore con colori a olio».

Parliamo della conformazione del carretto.«E’ quella del carro di legno con due ruote alte, che rimanda alle condizioni delle rete stradale di allora, sentieri naturali rischiosi da percorrere, elemento che spiega anche perché sui carretti si dipingevano figure di santi protettori come auspicio per la buona riuscita del viaggio. Le immagini sacre lasciano spazio nel tempo ad altri elementi decorativi, nati come vezzo dei proprietari benestanti. Furono proprio le decorazioni a renderli famosi in tutto il mondo».

Carretti e pupi: due simboli della cultura e della tradizione siciliana, celebrati da viaggiatori, letterati e scrittori….«La prima descrizione del carretto siciliano, come detto, risale al 1833, nel resoconto del viaggio fatto in Sicilia dal letterato francese Gonzalve de Nervo, il quale raccontò di aver visto sulle strade siciliane carretti le cui fiancate recavano l’immagine della Vergine o di qualche santo».

E poi la tradizione si tramuta in creatività e allora diventa non soltanto mezzo di trasporto e da lavoro, ma assume forme d’arte di alto valore. E poi ancora arriva lei e il suo progetto di museo.«Io che ho pensato di affiancare l’antico mezzo di trasporto istoriato con scene religiose o epico-cavalleresche all’Opera dei pupi, iscritta nel 2008 dall’Unesco tra i patrimoni orali e immateriali dell’Umanità ed esporli qui nella mia casa di Trecastagni in una vetrina senza tempo che mi auguro possa diventare al più presto una presenza stabile. Nonché una testimonianza dei valori culturali che caratterizzano l’anima nobile della Sicilia».COPYRIGHT LASICILIA.IT © RIPRODUZIONE RISERVATA