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Allevatrici e casàre, la tenacia e il coraggio delle “pastoresse” di Sicilia

Di Carmen Greco |

Hanno rotto un cliché ed hanno invaso un mondo fino ad oggi ritenuto maschile e soprattutto patriarcale. Sono le donne pastore, donne che hanno scelto un mestiere difficile in un contesto ancora più difficile come quello degli allevamenti e della pastorizia in Sicilia. Mentre nel resto d’Italia l’immagine delle “pastoresse” ha preso piede, in Sicilia è ancora un tabù fare questo lavoro e lo testimoniano due donne pastore che ci hanno raccontato il loro quotidiano, fatto di impegno, di sacrificio, ma anche di “ostacoli” da parte di un ambiente che non accetta l’idea di una donna pastora, allevatrice, casàra. Rossella Calascibetta a Monreale e Asia Scorpo a Sortino sono state due delle donne che coraggiosamente si sono esposte per denunciare i loro problemi. Altre pastore hanno preferito non parlare pubblicamente. Loro chiedono solo di poter lavorare in pace, portando avanti un sogno costruito consapevolmente. Le loro – un destino spesso comune alle donne-pastore – sono state scelte radicali. Hanno cambiato vita e deciso “altro” per il loro futuro: Rossella Calascibetta, di abbandonare la filosofia per dedicarsi alle sue capre e al lavoro di casàra, Asia Scorpo, di coronare il suo sogno di bambina allevare animali di piccola taglia e vivere in un terreno tutto suo.

Un impegno, come ha sottolineato il prof. Salvatore Bordonaro, associato di di Zootecncia generale e miglioramento genetico dell’Università di Catania, che significa salvaguardia dei territori: “Queste donne sono custodi di territori e tradizioni, sono veramente delle eroine che lottano ogni giorno in zone difficili, malgrado le difficoltà”.           

«Non trovo un pascolo per le mie capre»

Le “mani nel latte”, come dice lei, le ha messe cinque anni fa, dopo 30 anni di convivenza con le capre. Rossella Calascibetta ha lasciato gli studi filosofici a Palermo, per diventare una donna pastore. Oggi non potrebbe stare senza le sue capre, con le quali convive felicemente. Stessa cosa non si può dire per i suoi vicini che non sopportano l’idea di una donna allevatrice e produttrice di formaggi. Una figura che nel resto d’Italia è molto diffusa e qui, in Sicilia, è ancora prigioniera di cliché e pregiudizi.

«Per loro è mentalmente inaccettabile che un donna possa essere prima pastora e poi casàra, di questo ne sono convinta, perché le persone del mestiere con le quali ho avuto a che fare, mi guardano con distacco, con sufficienza, convinte che da un momento all’altro non mi vedranno più, perché sono una donna e, secondo loro, non ho la possibilità di continuare».I “segnali” che le vengono inviati per convincerla a mollare sono chiari. Innanzitutto nel territorio di Monreale i suoi prodotti non si vendono. «L’idea del formaggio di capra in paese viene disdegnata, non so perché. C’è una mancanza di conoscenza, ma anche una volontà di non voler conoscere questo prodotto. Si è perso qualcosa, però. Una volta, le nonne, le madri, avevano tutte una capra in casa che serviva all’alimentazione della famiglia anche perché è un tipo di latte che si avvicina di più a quello umano».

Ma il problema più pressante, al momento, è quello di trovare un pascolo per i suoi animali (circa 120). «Ci sono posti dichiarati solo come allevamenti – dice Rossella Calascibetta – che producono comunque latticini (di vacca e di pecora ndr), però aziende che operano alla luce del sole ce ne sono pochissime. Qui sono rimasti praticamente fermi agli allevamenti e non hanno proseguito con un progetto di filiera. Attività che passano di padre in figlio i quali hanno in mano il 100% del territorio e seguono regole non scritte che penalizzano la mia presenza qui. Non riesco, se non facendo degli sforzi e pensando di comprare qualcosa – infatti vorrei fare un mutuo per acquisire un lotto di terreno – ad entrare in alcuno dei pascoli del circondario, anche se è notorio che le capre si nutrono d’altro rispetto a vacche e pecore e potrebbero convivere tranquillamente. Per adesso, sono in affitto, a 400 euro al mese, in un posto in cui ho già ricevuto lo sfratto e tre settimane fa, sono arrivati anche i Nas per un controllo. Hanno trovato tutto in regola, ma avevano in mano una denuncia e dovevano fare il loro lavoro, li capisco. Alla fine mi hanno detto “Ma come fa a resistere?”».

È vero che le hanno creato problemi anche in paese?

«Ho fatto la scelta di voler riaprire un piccolo caseificio in paese e, da un giorno all’altro, è stato soppresso lo scarico a servizio del laboratorio. Mi hanno detto che c’era una denuncia in prefettura perché questo scarico – a detta dei vicini – non serviva più, in quanto la mia non era un’attività commerciale e, quindi, non ne avevo bisogno. Ma se io ogni mattina porto lì 80 litri di latte per lavorarli, la mia non è un’attività commerciale? Oggi mi pento di quella scelta, forse avrei fatto meglio a stare lontano visto che c’è questa ostilità palese nei miei confronti e magari sarei stata più vicina alle mie capre invece di fare su e giù».

Perché, adesso cosa fa?

«Una vitaccia. Ogni giorno quando arrivo con il mio latte cerco di mettermi dove posso. Ho parlato con il comandante dei vigili che sta cercando di ripristinare la situazione. Purtroppo viviamo in un contesto molto difficile. Per fortuna ho trovato la solidarietà da parte delle Istituzioni e dei veterinari dell’Asp».

Non le viene mai voglia di scappare?

«Devo dire che ogni tanto mi viene il desiderio di andarmene. Anna Kaufer (un’architetta paesaggista che fatto uno studio sulle donne pastore in Italia ndr) mi dice “Vieni qui a Parma che il mondo è totalmente diverso”».

Ha mai avuto paura?

«Paura no, perché la paura inquina e uccide i sentimenti, difficoltà tante. Nessuno vuole collaborare con me, dividere un pascolo o lavorare il latte insieme. Eppure basterebbe solo conoscersi, dialogare. Io voglio solo lavorare, mi basterebbe trovare uno spazio. Chissà quanti terreni abbandonati ci sono che il Comune potrebbe mettere a disposizione. Proprio in queste giorni degli amici mi hanno prospettato la possibilità di chiedere l’affidamento di un lotto di terreno che appartiene al Fondo edifici di culto, una storia di esproprio alla chiesa fatta da Rosolino Pilo per i siciliani che poi rimase alla prefettura… speriamo bene».

«Un mondo molto maschilista»

La sua giornata inizia alle 4.30, sia in estate che in inverno. Prima “governa” conigli e galline, poi munge le vacche e così scorrono le prime tre ore; alle 8, porta il figlio di tre anni a scuola, ritorna a casa e continua a sistemare ricoveri, recinzioni, muretti a secco. Tutto da sola. Otto ettari a Sortino, dove c’è casa e allevamento, altri 3 a Solarino, adibiti a pascolo. È la vita che ha scelto Asia Scorpo. Di fatto, 15 anni fa. Nella sua mente, da quando aveva 8 anni: «Ho sempre saputo che amavo più gli animali delle persone». E oggi, che di anni ne ha 38, con i suoi animali – circa 150 – ha fatto famiglia.

«Nessun precedente, studiavo scenografia – racconta -. Sono il primo allevatore della mia famiglia la quale, tra l’altro, per la maggior parte, non mi parla perché ho fatto questa scelta. Trovano abbastanza vergognoso che io faccia l’allevatore. A 21 anni, ho avuto la possibilità di curare un terreno non mio, e da lì ho cominciato a comprare animali. Dopo qualche anno ho pensato, “proviamo a farlo diventare un lavoro” e, così, 6 anni fa, finalmente, c’è stata la svolta: ho potuto comprare un terreno tutto mio, e così da Solarino ho trasferito tutto a Sortino».

Che cosa vuol dire fare l’allevatore-donna?

«Intanto combattere con un mondo che è prettamente maschilista e, purtroppo, non solo nell’allevamento. I problemi non ce l’ho con i colleghi, attorno a me ci sono persone deliziose, ma con i vicini. Il mondo maschilista, per una donna sola con un bambino, è pesantuccio».

Che tipo di problemi?

«Ti vedono da sola, ti creano problemi per ogni cosa, non è facile avere a che fare con il vicinato. Una donna sola in Sicilia è vista come una donna aperta a tutti, parlando molto chiaro. Da quando mi sono separata e non vedono un uomo accanto a me… Una donna in mezzo alle montagne fa ancora un certo effetto. Ma io voglio solo lavorare in pace, crescere mio figlio e portare avanti la mia attività».

L’ostilità da cosa nasce?

«È una questione di ignoranza profonda, di invidie stupide, una donna che va avanti da sola sembra impossibile. È la solita mentalità maschilista che in questa società dell’entroterra è terribile, poi nel siracusano è particolare. Ogni giorno ti mandano controlli, Asp, carabinieri, con storie inventate veramente pazzesche, una guerra. Anche i carabinieri hanno capito che è un accanimento, ma purtroppo arriveremo in Tribunale. La mia rabbia è che tutto questo toglie tempo al mio lavoro. Io mi dedicherei molto volentieri ad altro, siamo alle porte dell’inverno e c’è tantissimo lavoro da fare invece che scrivere carte e fare la burocrate».

Galline, conigli, capre tibetane, maiali vietnamiti, vacche e asini. Come si studia da allevatori?

«Io in realtà studiavo scenografia, ma l’ho lasciata all’ultimo anno. Col tempo ho capito che è stato un po’ un ripiego. Poi per anni ho lavorato nel restauro della pietra. Ho avuto anche belle opportunità, ma non era il mio posto».

E come si passa da studiare scenografia ad allevare animali?

«Tutto il mio tempo libero lo dedico allo studio, ma la grande fortuna è stato il mio veterinario che considero come un padre. Sono riuscita ad andare avanti grazie a lui, i primi due anni piangevo tutti i giorni».

Galline (da carne, uovo, ornamentali), conigli, capre, maiali, vacche, asini, pavoni, pastori maremmani, nemmeno Noé…

« Ho un rapporto un po’ particolare con gli animali che probabilmente non tanti allevatori hanno. I miei riproduttori moriranno di vecchiaia, sono da anni con me, anche gli asini non avranno come destinazione il consumo umano, l’ho dichiarato sul passaporto».

Sul passaporto?

«Sì, gli equini hanno un vero e proprio passaporto e sui documenti l’allevatore deve stabilire se, alla morte dell’animale, possa essere destinato al consumo umano o no. In genere si fa così, soprattutto in caso di incidenti, giusto per ricavarci qualcosa, ma io ho detto no, ho fatto la scelta opposta».

Cosa produce la sua azienda?

«Io soprattutto vendo l’animale vivo, e poi il latte e le uova».

Il suo prossimo progetto?

«Farò le uova agli Omega-3. I mangimi me li faccio da sola, compro le materie prime al mulino e li doso da me. Un alimentarista mi ha messo questa pulce nell’orecchio, mi sono informata, e ho scoperto che si può fare. Avrò un doppio pollaio: da un lato le galline “normali”, dall’altro quelle alimentate con questo mangime fino a quando non arriveremo ad un uovo di qualità a ricco contenuto di Omega-3».

«Sono delle eroine che lottano ogni giorno»

«La presenza della donna nell’attività zootecnica, c’è sempre stata. Solo che in passato la donna accompagnava il proprio compagno nelle attività produttive e, al massimo, le veniva assegnato il compito di lavorare il latte. Oggi, chi sceglie di fare questo mestiere lo fa come scelta di vita».

Salvatore Bordonaro, professore associato di Zootecnia generale e miglioramento genetico al Dipartimento di Agricoltura Alimentazione e Ambiente dell’Università di Catania, di donne-pastore ne parla ai suoi studenti. «L’anno scorso ho proposto loro il libro di Marzia Verona, una piemontese che dopo aver scritto “Storie di pascolo vagante”, sulla vita delle donne-pastore, ha deciso di fare questo mestiere. Piemontese, laureata in Scienze forestali e ambientali, fare la pastora non era l’idea di partenza, ma ha scoperto che fare quella scelta di vita, una scelta coraggiosa, la portava verso una nuova consapevolezza, verso una vita diversa dall’abitudinario».

In Sicilia le “pastore” sono un fenomeno recente?

«In questo senso sì, anche se non non in modo così vistoso, se non altro perché prima non c’erano i media che trasferivano questo tipo di messaggio. Poi, in certe aree della Calabria, nell’entroterra messinese o negli Appennini centrali, ci sono sempre state donne che hanno fatto questo mestiere in prima persona».

Ma c’è qualcosa di più di un “lavoro” nelle parole di Rossella Calascibetta e Asia Scorpo…

«Pascolare il gregge è stato sempre una cosa molto faticosa, soprattutto in territori montani, difficili, zone in cui c’è sicuramente meno comfort e stare fuori tutto il giorno non è cosa semplice. Vedere, quindi, oggi queste giovani donne che hanno deciso di fare le pastore, è una scommessa ancora più forte. Dal punto di vista antropologico possiamo dire che sono veramente delle eroine, tanto più che nessuna delle due ha alle spalle una tradizione familiare».

La loro scelta contribuisce anche a far rivivere certi territori?

«Non c’è dubbio che la presenza in alcuni posti di queste donne non toglie niente a nessuno, semmai aggiunge, perché si tratta sempre di territori a vocazione pastorale e allevatoriale. La presenza della donna- pastora, corrisponde al ruolo di “custode” del territorio e delle sue tradizioni. Senza considerare che anche gli animali hanno una funzione forte per la conservazione di queste zone dal punto di vista idrogeologico, soprattutto in un momento in cui emerge tutta la fragilità dei territori. Continuare a fare attività zootecnica in questi contesti, significa anche preservare l’ambiente. Queste donne lo fanno, e lottano ogni giorno, malgrado le difficoltà, malgrado tutto».

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