19 dicembre 2025 - Aggiornato alle 12:08
×

Elena Varesotto, la paleopatologa che dà voce ai resti umani del passato

Teschi, femori, scheletri per lei non sono un mistero. La studiosa si divide tra l'università e il centro Fapab di Avola

Carmen Orvieto

10 Luglio 2025, 08:30

Schermata 2025-07-10 alle 08.33.29

Le ossa non mentono mai. È questa la frase che Elena Varotto si ripete ogni volta che apre un nuovo sacco proveniente da uno scavo. Teschi, femori, costole: a vederli così, sembrerebbero solo frammenti inerti, ma per lei sono voci. Voci che raccontano di dolori antichi, malattie dimenticate, traumi mai guariti.
Elena Varotto è una paleopatologa: legge le patologie nei resti umani, restituisce storie a chi non ha più voce da secoli. Non è solo scienza. È empatia, è ascolto. È un modo per ridare dignità alla sofferenza passata. Veneta di origine, siciliana d’adozione, la giovane scienziata, 37 anni, che lavora da anni tra l’università e il centro di ricerca Fapab di Avola, è una delle paleopatologhe più autorevoli del panorama scientifico internazionale. Ricercatricealla Flinders University, in Australia, dal 2019, vanta un curriculum blasonato: circa 200 pubblicazioni su riviste accademiche di rilievo, scoperte che hanno arricchito la conoscenza del mondo antico, un dottorato in paleopatologia e paleoradiologia, e l’abilitazione italiana a professore associato in Storia della Medicina. Ma al di là dei titoli, c’è una studiosa che con passione e rigore si dedica allo studio delle tracce di sofferenza umana conservate nei secoli. In questa intervista racconta il suo lavoro, il fascino della ricerca e l'intenso legame con la Sicilia dove vive e lavora da anni e dove sostiene di avere scoperto un patrimonio bioarcheologico straordinario.


Qual è la sua giornata tipo

«La mattina inizia con il controllo delle e-mail e la risposta ai colleghi, segue la parte più operativa, in laboratorio, dove mi dedico all’analisi dei resti umani – antichi o di interesse forense – per individuare segni di malattie, traumi o particolarità anatomo-antropologiche. È un lavoro meticoloso, che permette di raccogliere dati fondamentali per ricostruire la storia biologica e sanitaria di individui vissuti secoli o millenni fa».


Cosa l'ha spinta a scegliere questo lavoro, così affascinante ma inconsueto?

«È stato l’incontro tra la mia formazione archeologica e un profondo interesse per le malattie umane. La paleopatologia unisce scienza e storia: studia le malattie nei resti umani antichi, come scheletri o mummie, permettendo di ricostruire la salute, le abitudini e le codizioni di vita delle popolazioni del passato, da un lato racconta la storia biologica dell’umanità, dall’altro aiuta a comprendere meglio l’origine e l’evoluzione di malattie ancora attuali. È una disciplina complessa, che integra analisi di laboratorio, radiologia, microscopia e biologia molecolare».


Perché è importante studiare le malattie del passato ai giorni nostri

«Perché ci aiuta a capire meglio la storia della salute umana e il modo in cui l’ambiente, le abitudini e l’evoluzione biologica hanno influenzato la nostra specie. Analizzando i resti antichi possiamo ricostruire non solo quali malattie colpivano le popolazioni del passato, ma anche come queste comunità reagivano alla sofferenza, alla disabilità e alla morte. Ci sono malattie che accompagnano l’essere umano fin dai tempi più antichi, e che troviamo ancora oggi, magari in forme diverse. Una su tutte è l’artrosi: la riscontro spesso nei resti umani, anche molto antichi, e ci racconta di corpi sottoposti a fatica fisica, a lavori usuranti, proprio come accade oggi in certe categorie. Anche la tubercolosi è una malattia senza tempo: la troviamo in mummie egizie e in scheletri medievali, e purtroppo non è ancora del tutto scomparsa».


Qualche caso curioso nel quale si è trovata col suo lavoro?

«Ho avuto il privilegio in Italia e all’estero di studiare contesti molto complessi, dalle mummie egizie a quelle naturali, dagli ossari alle fosse comuni di deceduti a causa della peste di fine ‘500, analizzando scheletri di cui purtroppo non si saprà mai il nome, cosiddetti “anonimi”, come pure resti di personaggi celebri del passato, quali quelli rinascimentali del presunto Novello Malatesta o di alcune famiglie nobiliari siciliane. Mi sono trovata anche coinvolta nello studio di sarcofagi all’interno di chiese e anche a decine di metri di profondità a recuperare scheletri, come pure a scavare su di un costone roccioso quasi a strapiombo sul mare o in ipogei preistorici a recuperare resti dell’Età del rame. Una volta mi hanno perfino contattata dal Belgio per collaborare allo studio, poi pubblicato sul Journal of Anatomy, di un trauma riscontrato su un Iguanodonte (dinosauro) di milioni di anni fa».