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Viola Di Grado, un’anima (letteraria) gotica innamorata della luce

Di Ombretta Grasso |

Catania – Creatura dark e “aliena”, lunghi capelli biondi, rossetto nero e occhi bistrati, Viola Di Grado, scrittrice, è un’anima gotica innamorata della luce. Nata a Catania nel 1987, vincitrice del Premio Campiello Opera Prima nel 2011 con “Settanta acrilico trenta lana”, toglie il fiato con le sue parole acuminate che tessono storie estreme di madri artificiali, di legami folli e ossessivi, di desolazioni umane e urbane. Nell’ultimo romanzo “Fuoco al cielo” immerge un amore avvelenato nello scenario apocalittico di una città siberiana segreta, cancellata da catastrofi nucleari. Nomade, esploratrice di universi, cambia spesso città, in un elenco ancora in corso. Dopo una residenza per scrittori in Austria, è stata in questi giorni a Ventotene, al Festival letterario “Gita al faro”, da settembre sarà a Shanghai. L’anno scorso è ritornata a vivere nella sua città, «luminosa e oscura», un po’ come lei.

«Mi affascina la dimensione dell’isola. Amo la sua chiusura, scatena incantesimi. E’ sempre una chiusura immaginifica, anelante. Le isole, come la Sicilia, l’Islanda o il Giappone, sono i posti che mi piacciono di più . Tutte hanno in comune questo sentimento un po’ schizofrenico di isolamento e di sguardo ansioso verso l’esterno che produce una creatività controversa. Sono terre di vulcani, e mi piace molto la lava. Il vulcano dà un’energia particolare. Tutti quelli che vengono a Catania dicono che c’è un’energia strana, che va verso il basso».

Può avere un significato negativo.

«Certo, ma nel positivo è una energia che ti porta verso l’abisso, ottima per la scrittura, è l’esplorazione dell’inferno. Non a caso, l’Etna era considerata una delle sue porte».

L’isolatitudine rimane sempre?

«L’ho scoperto da poco. Sono andata via a 17 anni e ho passato sull’Isola brevi periodi. Non sapevo che, in realtà, in giro per il mondo, stavo cercando tutti quegli elementi che appartengono anche alla Sicilia. Così in Nuova Zelanda cercavo le spiagge nere. Sono tornata sull’Etna a distanza di tanto tempo riconoscendo che i miei paesaggi interiori sono fatti di lava».

Qual è il tuo rapporto con la città?

«Per tanti anni tutti i miei incubi erano ambientati a Catania. Immagino per una serie di esperienze infelici. Quando avevo 14 anni io e mia sorella siamo state aggredite da una gang di ragazzi alla Villa Bellini. Una cosa assurda che mi è rimasta molto impressa, anche perché tutti guardavano e nessuno interveniva. Ho sentito un clima di violenza. Ci sono voluti anni per liberarmi. Quando l’ho svuotata di questi ricordi è come se l’avessi riscoperta da zero, come se fosse una città nuova. Ho passato mesi a Catania e non succedeva da tempo. Ho apprezzato cose che prima assolutamente non amavo. Ho scoperto di avere un bisogno enorme della luce e non ci sono altri posti che hanno questa luce anche in inverno. L’ho trascorso a scrivere alla Villa Bellini».

Cosa ti piace della città?

«Il mercatino delle pulci al porto. Ho recuperato oggetti antichi, corna, animali imbalsamati. Tanti rigattieri che hanno un gusto dark. E poi l’atmosfera leggera senza pensieri, come se fosse una città che non vuole soffrire».

Eppure Catania è in difficoltà.

«La gente soffre moltissimo, certo, ma come atteggiamento preferisce concentrarsi su ciò che è luce invece che sulla sofferenza».

Cosa non sopporti di Catania?

«Non riusciamo veramente a valorizzare quello che abbiamo, guardiamo sempre all’esterno. Quando una cosa viene da fuori è vista in un altro modo. È un problema enorme. La Sicilia deve fare molta più attenzione alla Sicilia, è ridicolo guardare sempre altrove, quando qui c’è già tutto. Ad esempio, qui può essere difficile trovare i miei romanzi: un paradosso».

Cosa ti piacerebbe trovare?

«Più eventi culturali, più attenzione per l’arte, per gli spettacoli. Non so come fosse in passato perché non c’ero. Ora ci sono poche proposte. Amo molto il cinema, ma ci sono tanti film commerciali, poche rassegne e alcune pellicole non arrivano proprio».

Una città che guarda il vulcano.

«Anche per l’Etna si potrebbe fare di più. In Islanda hanno monetizzato in modo pazzesco, probabilmente anche eccessivo, il loro paesaggio. Creano tante gite a tema e questo mi ha fatto riflettere su quante se ne potrebbero fare sull’Etna legate alla mitologia, ai paesaggi, alle leggende. Manca un po’ la fantasia, un turismo più fantasioso, legato alla nostra letteratura».

E in città?

«C’è molto da scoprire, le necropoli, il castello Ursino “infestato” che richiama gli esperti del paranormale. Si potrebbero inventare passeggiate horror. E’ veramente oscura, ha questa “nerezza”. I catanesi vanno verso la luce proprio perché hanno dentro questa oscurità».

Perché il ritorno a casa?

«Dopo aver girato il mondo per 14 anni ero stanchissima e avevo voglia di un posto sempre luminoso. Mi è tornata in mente questa casa del nonno, che stava lì, come ad aspettare qualcosa o qualcuno. Ci vivo da novembre, in questi mesi ho tradotto i saggi di Joyce Carol Oates. Questa casa ha curato la mia gatta che stava malissimo. È guarita in balcone al sole».

C’è un luogo che senti tuo?

«I paesaggi lunari dell’Etna. Poi, è raro che senta mio un paesaggio urbano, preferisco quelli naturali».

Come ti sembrano i catanesi?

«Tutti estremamente gentili, una gentilezza non formale, come quella degli inglesi, imposta dall’educazione, ma genuina. E questo mi piace molto».

Cosa dovrebbero cambiare?

«Forse si dovrebbe andare un po’ più verso il nuovo, essere più creativi nelle cose presenti e future».COPYRIGHT LASICILIA.IT © RIPRODUZIONE RISERVATA