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Giusy Malato, il centroboa più forte del mondo e stella del Setterosa e dell'Orizzonte

Il racconto di una vita da campionessa ma anche di moglie e di madre. L'inizio al Dopolavoro ferroviario all'età di 13 anni

Alessandro Ferro

06 Agosto 2025, 12:00

Giusy Malato

Giusy Malato

Giusi Malato, il più forte centroboa che l’Italia abbia mai avuto. Semplicemente… una carriera incredibile.
Quattordici scudetti e sei Coppe Campioni con l’Orizzonte Catania da giocatrice e uno scudetto e una Coppa Campioni da allenatrice, quali sono i suoi ricordi?

Un ciclo travolgente

«È stato un ciclo travolgente: sono entrata nell’Orizzonte Catania quando si chiamava Dopolavoro Ferroviario, nel 1984 a 13 anni. Ricordo la Coppa Campioni vinta nel 1998 a Catania con la piscina che strabordava di gente, il primo scudetto con Marcello Del Duca vinto a S. Maria Capua Vetere e il decimo scudetto, quello della stella, vinto a Palermo alla quinta gara dei play off per un gol negli ultimi secondi».
Non è stato sempre tutto rose e fiori.
«No, ricordo anche le sofferenze, i sacrifici e i pianti quando non vincevamo. Per non dimenticare gli infortuni, quando stringevamo i denti con le compagne di squadra e i momenti difficili nello spogliatoio».

Appunto, gli infortuni.
«Ho avuto un problema alla spalla che mi sono portata dietro da quando avevo 16 anni. La prima volta mi hanno operato nel 1993, la seconda volta poco prima delle Olimpiadi. Andavo oltre il dolore, avevo un recupero atletico importante per la voglia e la ‘fame’ che avevo. Ma questo andare oltre mi portava ad avere dolori importanti».
Ha di certo un posto speciale tra i suoi ricordi la medaglia d’oro alle Olimpiadi di Atene nel 2004.
«L’oro olimpico è il coronamento di una carriera durata 25 anni, di rinunce e sacrifici fatti da me e da tutta la squadra. Quel decennio con Pier Luigi Formiconi portò alla Nazionale quattro Europei, due Mondiali e finalmente l’oro olimpico. Un aneddoto: dopo aver perso la prima qualificazione del 2000 alle Olimpiadi di Sidney, a Palermo, ci siamo fatte una promessa. Dopo la delusione ci siamo incontrate a colazione dicendoci che alla prossima avremmo vinto perché… ce lo meritavamo. E così abbiamo fatto».

La "Calottina d'oro"

Una soddisfazione personale unica: la “Calottina d’oro” nel 2003, ovvero la miglior giocatrice del mondo.
«Ero appena stata operata alla spalla, sul momento non avevo capito bene cosa stesse succedendo, ho realizzato quando sono arrivata a Budapest, mi hanno trattato come una Vip. Quando sono entrata in una sala gigantesca con tutti i pallanuotisti, uomini e donne, più forti del mondo, ho capito davvero di cosa stavamo parlando. Durante la proclamazione mi sono venuti i brividi mentre tutti in piedi mi applaudivano».

La prima donna allenatrice

Tra i suoi record anche quello di essere stata la prima donna allenatrice di una squadra maschile in A1, la Nuoto Catania: quali sono le principali differenze nell’allenare un gruppo di uomini rispetto alla donne?

«Dal punto di vista tecnico e tattico gli uomini sono più prestanti fisicamente e hanno una facilità di movimento con una forza diversa, una donna gioca più di tattica. Dal punto di vista di gestione dello spogliatoio sono due mondi paralleli che non si possono incontrare mai, come nella vita. La donna è più puntigliosa, più precisa anche per le piccole cose. In pratica è più “camurriusa”. Ma a favore delle donne dico anche che un gruppo coeso riesce a scalare una montagna che un uomo non potrebbe, riesce a superare ostacoli, avversità e difficoltà in maniera spontanea e forte».

Rispetto a quando giocava la pallanuoto è cambiata? Se sì in che modo?

«C’è stato un cambiamento sociale: prima non c’erano gli svaghi odierni, oggi l’approccio dei ragazzi è diverso, c’è meno voglia di sacrificarsi per raggiungere un obiettivo. Bisogna insegnare loro che è necessario passare attraverso sudore, pianto, sacrifici, fatica. Gli ostacoli vanno affrontati, non aggirati. Tatticamente è cambiata totalmente: molto più fisica, più veloce, sono cambiati i secondi di attacco, l’uomo in più. Si cerca di dare più visibilità ma si dovrebbe fare in tv, non cambiando le regole ogni due anni».

Dalla pallanuoto al calcio: sappiamo che è una grande tifosa del Catania.

«Allo stadio vado di meno, sono impegnata sabato e domenica con le gare della mia squadra. Lo guardo in tv, ascolto la radio e lo seguo sui social ma le priorità che cambiano mi hanno portato più lontano dall’odore dei fumogeni e dell’erba bagnata».

Ma Giusi Malato com’è fuori dall’acqua? Lontano dal bordovasca?

«Ho due figli, Matteo di 13 anni e Diego di 17. Sono una mamma e una moglie normalissima che fa la spesa la mattina, porta i figli a scuola e lavora: sto attenta alla gestione dei valori, dal rispetto al sacrificio, dall’educazione allo studio per la loro formazione personale. Ho fatto scegliere lo sport che preferiscono perché la mia presenza, purtroppo, è ingombrante e non voglio vengano fatti paragoni. Cerco di renderli autonomi, non influisco sulle loro scelte: al massimo do un parere».

Ha una splendida famiglia, come si immagina quando avrà deciso di chiudere con la pallanuoto?

«Non succederà mai. Se penso al futuro mi immagino con i capelli bianchi, a bordo vasca e con il fischietto. Non mi immagino a casa con gli aghi per fare la maglia, non può essere».

Recentemente ha pubblicato un post, sui social, in cui ricorda in modo commovente i suoi genitori.

«Grazie a loro sono diventata quella che sono oggi, mi hanno insegnato come si arriva agli obiettivi. Papà era rigidissimo, un “tedesco”, ma adesso capisco quale fosse l’obiettivo da raggiungere. Mamma è stata una molto metodica, dalla sveglia al cibo. Insieme allo sport mi ha dato delle regole che oggi insegno ai figli. La mancanza dei genitori è la mancanza di radici».

C’è un aneddoto della sua vita sportiva che nessuno ancora conosce?

«Dopo l’operazione alla spalla destra nel 2003 sono arrivata alle Olimpiadi al 70% della mia forma ma le compagne di squadra mi hanno voluto lo stesso. In quelle Olimpiadi non ho potuto spiccare come avrei voluto e alcuni giornalisti mi hanno attaccato in maniera importante dicendo che non ero più quella di una volta… che ormai avevo una certa età. Le mie compagne, però, mi hanno difeso a spada tratta sui giornali e nelle interviste».

In conclusione, cosa vorrebbe dire Giusi Malato?

«Da allenatrice del Catania maschile ho preso il posto di Giuseppe Dato momentaneamente perché era squalificato e, in qualità di assistent coach, l’ho sostituito. È stata un’esperienza bellissima, i ragazzi mi hanno seguito e aiutato nella gestione della squadra. Vorrei dire che avere un’allenatrice donna in una squadra maschile non dovrebbe suscitare clamore né un’eccezione ma dovrebbe essere la normalità come vedere un uomo sulla panchina delle donne. Quando la società capirà questo avremo raggiunto la parità di genere».