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Luca Madonia: «Le mie stagioni della musica»

Di Leonardo Lodato |

Catania – No, non è un’operazione nostalgia. E’, più semplicemente, la dimostrazione che la musica, se ce l’hai dentro, non la puoi mollare, è carburante della vita. Così nasce “La Piramide” (Viceversa Records – Audioglobe – Believe), album nuovo di zecca di Luca Madonia. Parli di Luca Madonia – con Luca Madonia – e, ovviamente, non puoi fare a meno di rinverdire i tempi dei Denovo… «Dopo avere attraversato tante stagioni musicali, avendo cominciato, è proprio il caso di dirlo, nel secolo scorso, appena ventenni con i Denovo, è bello vedere che ci sono tante persone che ancora ci seguono. Ne parlavo di recente proprio con Mario Venuti. E gli dicevo: “Pensa quanto tempo è passato e siamo ancora qui a fare dischi, a parlarne”. Credo che tutto ciò sia bello e gratificante».

Mario è il protagonista di uno dei 10 duetti contenuti nel disco, “Guarda come scorre”. Com’è nata l’idea di radunare questi amici e coinvolgerli nel tuo nuovo progetto?

«Avevo un brano con Giada Colagrande che abbiamo presentato a Sanremo il primo anno in cui c’era Baglioni, e credo gli fosse piaciuto molto. Poi, chiaramente, scattano quei meccanismi conosciuti che hanno portato quel Sanremo da tutt’altra parte, anche se lo stesso Baglioni mi aveva telefonato dicendomi che ero fra i trenta selezionati. Poi, però, non ero tra i venti che sono entrati. Ed eccomi qua. “Le conseguenze che non ti aspetti” è una canzone che mi piace tanto. Poi, volevo riprendere “Quello che non so di te”, il brano registrato con Franco Battiato, e dargli “nuova vita”. Quando abbiamo fatto Sanremo, all’aeroporto di Genova, un addetto riconosce Battiato e lo saluta: “Maestro, sono un suo fan!”, e gli canta questa canzone. Franco lo guarda e gli dice, indicandomi: “Ma questa è sua!!!”. E vabbè, gli ho detto, ormai è la nostra canzone. Poi, tornando ai motivi che mi hanno spinto a fare questo disco, ci sono state le insistenze di mia moglie Daniela e dei miei figli Mattia e Brando. E a questo punto, mi sono lanciato».

E tra gli artisti coinvolti ci sono anche Enrico Ruggeri, con “Allora fallo”, e i Decibel con “I desideri non cambiano”…

«A Enrico avevo mandato due brani dandogli facoltà di scelta. Lui mi ha detto: “Ti faccio una proposta: te li posso fare tutti e due?”. E questa è una cosa che mi gratifica tantissimo. Vuol dire che ho seminato bene e che tra noi c’è molta stima. Sentire i tuoi testi cantati da altre persone, queste voci che si intrecciano, ha dato un altro sapore al disco, mi diverte ascoltarlo».

Ma il tuo cuore punta dritto a un brano in particolare: “A volte succede”.

«In questo brano ho voluto coinvolgere mio figlio Brando. Il testo si prestava molto a questo gioco padre-figlio perché si parla di vita giusta, è un insegnamento velato. Dice: sarebbe bello avere tutto, fare tutto, ma non è così, ci sono delle leggi morali, ci vuole l’onestà. Mi sembrava carino questo passaggio di staffetta…».

Staffetta? Caro Luca, ma non è che stai per annunciare qualcosa di veramente clamoroso?!

«No, dai, parliamo di staffetta cromosomica. In fondo i cromosomi della musica glielo ho passati davvero. Brando si è laureato al Dams, ha fatto cinema, ma l’amore per la musica gli è tornato, ha un nuovo progetto solista di cui, per scaramanzia, non vorrei dire altro»…

Tiriamo un sospiro di sollievo e andiamo avanti.

Luca, tu sei un musicista al cento per cento. Ma campare di musica, oggi, non mi sembra che sia cosa fattibile…

«Diciamo che una volta si viveva vendendo dischi, oggi si è spostato tutto dai dischi ai concerti».

Una cosa che ti costringe a fare scelte importanti.

«La voglia e la passione sono sempre quelle. Nell’82 quella magia che si è creata fra noi, parlo dei Denovo, mi ha spinto a sposare la musica. Ero quasi laureato in Medicina ma ho seguito il cuore. Di contro, il mercato si è fermato, le case discografiche hanno sbagliato perché non hanno capito in tempo che sarebbe passato tutto on line. Adesso rimane l’aspetto dei concerti, la soddisfazione di incontrare il pubblico, il nuovo e chi è cresciuto con noi. E’ una storia lunga 35/38 anni. E questa è la cosa che dà forza. Mi auguro che, pur mantenendo uno stile, ci sia stata un’evoluzione. Prima c’era l’impatto fisico, il rock, un insieme di potenza. Andando avanti, dai maggiore peso ai testi e a quel che vuoi dire. Il fatto di diventare solista mi ha permesso di andare oltre. In questo disco c’è un confronto con tanti modi di cantare, di affrontare i testi».

Torniamo a Giada Colagrande. Com’è nata questa amicizia?

«Giada è la moglie di Willem Dafoe, e ci siamo conosciuti tramite Franco Battiato. Sette, otto anni fa, ci siamo incontrati ed è nata questa bellissima amicizia. Lei fa l’attrice, la regista. E aveva appena realizzato un disco di musica esoterica, un po’ mistica. E lì è venuta fuori l’idea di collaborare con questa “cantante non cantante”. Ha un approccio col canto diverso da tutte le altre. Willem, invece, pur essendo una star, è una persona davvero deliziosa».

Solitamente, più sei star e meno te la tiri…

«Pensa a quanti colleghi deficienti ho incontrato facendo il mio mestiere. Solo perché hanno un disco che ti passa, se ti va bene, per una settimana in radio, credono di essere chissà chi e di poterti trattare come uno straccio. Mi viene in mente Stevie Wonder. Ai tempi dei Denovo, quando avevamo appena cominciato, siamo andati a vedere un suo concerto. Alla fine siamo riusciti a entrare nel backstage e ci ha ricevuto nei camerini. Gli raccontiamo chi siamo, da dove veniamo… Lasciamo il nostro indirizzo al suo manager e dopo qualche giorno ricevo a casa una lettera di ringraziamento firmata da Stevie e dal manager. Come dire: se sei un grande sei un grande, senza bisogno di atteggiarti a star».

E poi c’erano i Beatles…

«Lo racconto sempre, la gente non ne potrà più, ma è una cosa che mi ha davvero segnato. Non ho mai perso di vista il punto di partenza, ero un bambino a Catania negli anni Sessanta, l’estrema periferia dell’impero. Mi sono innamorato di questi quattro musicisti di Liverpool, avevo 8 anni, ascoltavo “Bandiera Gialla” di Arbore e Boncompagni e poi a letto. A 12 anni convinco mia madre ad andare a Londra e, passando in una strada di periferia, vedo questa villetta con tanti ragazzi fuori, era Abbey Road. Lì ho incontrato John Lennon, l’ho fotografato. Conservo gelosamente il mio “santino”. Una storia che avevo rimosso per venti, trent’anni ma che adesso mi piace tirare fuori perché mi rivedo sempre quel bambino, con quei desideri, la voglia di fare quelle cose. Poi, sono nati i Denovo. Non mi sono mai preso sul serio. Sai che un disco va bene, un altro meno. Si suona, è tutto una bella favola condita anche da questi episodi».

E con i Denovo siete stati i precursori della “Catania come Seattle”, parentesi dimenticata…

«Catania, nel Dna, ha la curiosità, la voglia di fare. Noi abbiamo cominciato in quella che potremmo definire la pre-Seattle, quando era tutto buio, non c’era un posto dove suonare. Per il nostro primo concerto, e per capire se la cosa funzionava, abbiamo affittato il Cine Teatro Delle Rose. Ai tempi non c’era neanche un pub, però c’era questa voglia di sperimentare, si faceva rockabilly, jazz. Poi, grazie anche a noi, all’esplosione di Carmen Consoli, a quei manager che hanno cominciato davvero a credere al potenziale della musica, ecco che arriva la Seattle d’Italia. Tutto dipende anche dal tessuto sociale e politico del momento. Ricordo capodanni pazzeschi, i Dervisci rotanti in piazza Dante, con la gente che seguiva tutto. Ora non è un momento molto felice per Catania a livello creativo, pur essendoci sempre un grande fermento».

Perchè?

«Sbaglia la politica. Un conto è pompare la propria città, un conto è chiudersi e considerare la cultura qualcosa di serie B. Noi, in Italia, siamo liberi professionisti. In Inghilterra, in America, non esiste questo approccio. Ancora oggi c’è qualcuno che mi dice: “Ah, sì, suoni. Sanremo, i Denovo, ma di mestiere cosa fai?”. Pensa a quel che è accaduto con il Teatro Massimo, è assurdo, questo non dovrebbe mai succedere. La cultura, chi deve cercare di portarla avanti, se non la politica? Questo può salvare i giovani. Si crea movimento, si attira la gente da fuori. Io non sono molto mondano ma basta camminare un sabato pomeriggio in via Etnea e capisci che tipo di approccio c’è con la città. Bella, viva, una città che sorride. Pensa a Battiato, alla tradizione teatrale. Si è spento tutto. Credo che sia giusto, per i giovani, andar via per fare esperienza. Noi siamo stati a Firenze, Milano, Roma. Ma poi torni a casa e apprezzi altre cose. Oggi, alla mia età, mi gratificano il sole, la montagna, il mare. Ma a vent’anni devi scoprire il mondo, inventarti la vita. Anche noi siciliani siamo stati migranti. Ed è stato bellissimo».COPYRIGHT LASICILIA.IT © RIPRODUZIONE RISERVATA