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Il maestro d’italiano oggi imprenditore di tablet innovativi: le due vite del siciliano Rifici

Di Maria Ausilia Boemi |

Una storia «semplice», come la definisce Rifici, fuori dal comune in realtà, con questa cesura senza soluzione di continuità. Percorso di studi alle magistrali, poi dopo appena 6 mesi dal diploma il superamento del concorso per docenti del 1999. «Intorno ai 23 anni, sono venuto a Milano perché volevo insegnare. Sono arrivato a Milano con tante belle speranze e poca concretezza, perché non avevo un incarico. Ho iniziato così a fare il supplente, ma stabile, insegnando italiano, storia e studi sociali nella scuola primaria».

Settore, quindi, completamente diverso da quello in cui si è addentrato in seguito Rifici: «Solo apparentemente, in realtà, perché se una volta il regno della fantasia, dell’immaginazione era rappresentato dalla letteratura e dalla poesia, oggi il regno della fantasia, dell’immaginazione al contrario è la tecnologia, tutto ciò che la scienza ci propone».

Docente a Milano («Esperienza bellissima, probabilmente la più bella della mia vita»), Rifici si divide tra gli alunni della primaria di mattina e l’insegnamento nei corsi serali di informatica di cui era appassionato. Da lì la passione ha preso piede «e ho cominciato a fare anche attività di consulenza, sempre alle scuole, sulla gestione delle tecnologie». Ma con l’aumento della clientela, il secondo lavoro diventa prevalente sull’insegnamento scolastico. «Ho allora chiesto un part time a scuola. Ho cominciato a occuparmi di più dell’attività in campo informatico, ho assunto collaboratori, ma a un certo punto non ce la si faceva più neanche così e ho dovuto prendere una decisione. E partendo dal presupposto che un uomo che non crede nelle sue idee, o non vale nulla lui o non valgono nulla le sue idee, ho dovuto trarne le conseguenze e ho lasciato la scuola. Col senno di poi, una delle migliori scelte della mia vita».

Una volta concentrato a tempo pieno nell’informatica, con l’arrivo di nuovi collaboratori (oggi sono 15 nella sua azienda, la Microtech), Rifici decide di capitalizzare le loro competenze nello sviluppo dei dispositivi mobili: «Correva l’anno 2012 – racconta -, l’anno dell’esplosione dei tablet. Apple da poco aveva presentato il suo mirabolante iPad. In realtà, per le poche funzionalità che aveva, era più un telefono gigante. Però fece breccia nell’immaginario collettivo, compreso il mio. Pensai che questo potesse essere un oggetto dotato di un progetto. Lo trovai geniale, talmente tanto che mi faceva rabbia non averci pensato io. Ho cercato perciò di comprendere come sviluppare un prodotto del genere con i nostri mezzi». Operazione bloccata però sul nascere da tre realistiche considerazioni: «Non potevamo farlo, l’Italia non era il posto giusto per varie ragioni, ci volevano dei capitali che da soli non saremmo riusciti a mettere insieme. Ho compreso che la forza poteva stare nella sinergia, sicché ho alzato la cornetta e ho cercato di contattare Microsoft».

Dopo vari tentativi a vuoto, «mi hanno alla fine spiegato che il modo c’era perché si poteva sfruttare l’ecosistema industriale cinese che consentiva di assemblare le componenti a prezzi ragionevoli». Se il tablet si poteva quindi realizzare, assemblandolo in Cina, ci voleva però un’idea innovativa per competere sul mercato coi colossi del settore: «Abbiamo allora pensato di mettere su uno stesso dispositivo un doppio sistema con Android (ottimo per il tempo libero) e Windows (perfetto per la produttività e iper-compatibile). Windows eccelle laddove Android scarseggia e viceversa. Abbiamo creato così due sistemi compartimentati, due anime in un corpo solo: una simbiosi perfetta che porta solo vantaggi per l’utente».

E il mercato, in effetti, ha gradito il nuovo dispositivo. «Nel 2015, però, ci siamo posti un’altra questione. I due sistemi sono un must, ma hanno un piccolo svantaggio: devo riavviare il tablet per passare da un sistema all’altro. Ci siamo chiesti come fare per unire il meglio dei due mondi – Windows e Android – in un’unica interfaccia grafica. Era una sfida interessante: sviluppare un nuovo sistema operativo da zero era impossibile. Abbiamo pensato che potesse esistere già sul mercato qualcosa che consentisse di fare ciò, ma magari non era conosciuto in Europa».

L’incontro inaspettato che ha aggiunto questa marcia in più ai prodotti di Rifici è avvenuto durante una fiera a Hong Kong, dove l’ex maestro ha incontrato 3 ex ingegneri di Google che, conoscendo i tanti limiti di Android, avevano proposto un progetto di miglioramento che però era stato respinto. Si erano allora rivolti a una piattaforma di crowdfunding e, in breve, avevano raccolto 1,6 milioni di dollari, sviluppando così il primo nucleo del loro progetto che si chiamava Remix Os. «Remix – spiega Rifici – è esattamente quello che dice la parola: è un po’ di Windows, un po’ di Android e un po’ di iOs miscelati insieme. Come dire: il vantaggio del fritto misto che accontenta tutti i gusti. È un sistema davvero innovativo, almeno 5 anni avanti rispetto agli altri e la cosa incredibile è che costa zero, nel senso che noi lo abbiamo adattato semplicemente al nostro hardware. Nel 2015 abbiamo così portato sul nostro hardware il loro Remix Os».

Un’azienda italiana, in competizione con colossi irraggiungibili, ha così operato «come un moderno Prometeo – spiega Rifici -, rubando il fuoco agli dei e portandolo agli umani. Rendendo il tutto estremamente semplice, perché la complessità spaventa e soprattutto non aiuta le vendite. E Remix è un sistema veramente facile: l’operazione più complessa dura un massimo di tre clic». Un sistema, insomma, a prova di «utonto», neologismo targato Rifici: «Le persone amano la semplicità, l’essenzialità, il minimalismo. Remix è un campione di essenzialità, è fatto su misura per chiunque».

Ma alla fine, tra prof e imprenditore, quale parte della sua vita preferisce Rifici? «Difficile rispondere: sono due belle esperienze entrambe, anche se in modo diverso perché ognuna porta con sé oneri e onori di natura diversa. Quando insegni, la cosa che davvero respiri tutti i giorni è la ricchezza dei ragazzi: io dicevo sempre che, anche se come insegnanti guadagnavamo poco, ci sarebbe da pagare noi gli alunni per tutto quello che ti danno. Il privilegio di accompagnare i ragazzi in una fase così importante della loro vita e poi magari vederseli tornare da adulti è qualcosa che non si può spiegare, è impagabile. Il mestiere di imprenditore è una cosa diversa, perché ha delle responsabilità prima di tutto verso i clienti e poi verso i collaboratori: e non parlo solo di responsabilità economiche o finanziarie, ma anche legate all’ambiente di lavoro, al clima, all’atmosfera, ai luoghi, alle divisioni delle competenze, alle aspettative. È un altro mestiere. Devo dire però che un trait d’union tra le due cose io l’ho sempre trovato».

E torniamo così al cordone ombelicale che unisce, secondo Rifici, l’insegnamento dell’italiano e l’informatica: «Probabilmente la cosa che mi ha consentito di convincere i miei clienti è la capacità di spiegare il prodotto, di parlarne diffusamente, di sviscerarlo in ogni aspetto, di metterlo su un tavolo e smontarlo con le parole per fare capire alla persona che mi sta davanti esattamente di cosa parliamo. Per questo ci vedo un cordone ombelicale: alla fine devi spiegare il prodotto, qualunque esso sia, rendendolo semplice agli occhi di chi ti sta guardando, alle orecchie di chi ti sta ascoltando».

Ottimo il rapporto di Rifici con la Sicilia e con Sant’Angelo di Brolo, dove torna diverse volte all’anno. Ma soltanto in visita. Di rientrare non se ne parla: «Vorrei tanto farlo, ma il mio lavoro è qui. Diciamo che la Sicilia resta sempre nel mio cuore come l’isola di Peter Pan, come l’isola che non c’è: è bellissima, quando posso sto lì, ma dal punto di vista professionale come faccio a pensare di tornare?». Anzi, la tendenza è verso la Svizzera, dove fare imprenditoria è meno complicato che in Italia: «Ha presente quella pubblicità che diceva che ogni mattina una gazzella si alza e sa che dovrà correre più veloce di un leone? Ecco, ogni mattina un imprenditore in Italia si alza e sa che dovrà correre più veloce dello Stato che le trova tutte per fare andare le cose male. E non si tratta solo di pressione fiscale: è proprio il quadro normativo che non è favorevole. Adesso col jobs act qualcosa – poco – è cambiato: ora un imprenditore ha la possibilità di assumere validi collaboratori senza per questo doverseli sposare. C’è poi una pressione fiscale che non rende possibile la competitività: per fare un esempio, qui l’Iva è al 22%, in Svizzera è all’8%! Se producessimo i nostri prodotti in Italia, costerebbero il 39% in più, a parità di tecnologia, quindi sarebbero totalmente fuori mercato».

E all’ex maestro che a un certo punto ha rivoluzionato la propria vita, non si può non chiedere cosa consiglierebbe ai giovani: «Consiglierei di seguire il loro istinto, perché in fondo al cuore loro sanno cosa vogliono fare. Direi ai ragazzi di non accontentarsi, di cercare per quanto possibile di seguire le loro ambizioni, di restare assolutamente attaccati ai loro sogni, perché in fondo non è impossibile realizzarli. E si può fare, anche in Italia».

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