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Leopardi ti salva

Di Francesco Mannoni |

Così lo scrittore palermitano famoso per i romanzi “Bianca come il latte, rossa come il sangue“ e altri che hanno conquistato milioni di adolescenti, è entrato in relazione epistolare con Leopardi, rispondendo “a distanza di migliaia di ore” alla sua lettera con un impeto che si traduce in un’approfondita analisi dell’opera leopardiana che oltre a celebrare un’arte sublime, svela inediti contenuti del suo pensiero trasformando “L’arte di essere fragili” (Mondadori, 216 pp. 19 €) nella consapevolezza di “Come Leopardi può salvarti la vita”. Il libro diventerà anche uno spettacolo teatrale perché ognuno «possa sperimentare che la notte dei desideri è ogni notte e che la letteratura salva la vita, solo quando siamo disposti ad ascoltarla davvero».

D’Avenia, che cosa l’ha maggiormente attratta dell’opera leopardiana?

«C’era una specie di profezia, e ogni vero poeta è anche profeta (la parola poeta e contenuto dentro profeta), ma non perché fosse uno che vedeva in anticipo delle sventure, ma come le cose come stanno realmente. Perciò sono io quel giovane del ventesimo secolo a cui Leopardi ha destinato tutto quello che ha scritto, e rilancio la palla ai miei coetanei, ma anche a tutti i ragazzi del XXI secolo».

Perché?

«Leopardi, nonostante le fragilità della sua vita, ha sempre lottato per mantenere vivo il fuoco che ne ha fatto il più grande poeta moderno. E Dio solo sa quanto oggi abbiamo bisogno di poesia perché le nostre giornate oscurate dalla ripetitività del quotidiano, siano invece alimentate da un ardore come quello che Leopardi scoprì a 17 anni quando decise di diventare poeta. Credo che la sua opera serva a questa nostra epoca dalle passioni tristi per trovare nuovamente il fuoco per ogni età della vita».

Come può essere d’esempio per un giovane del nostro tempo uno “sfigato” come Leopardi?

«Leopardi è tutto il contrario di uno sfigato. Insegnandolo da tanti anni, ho notato che il suo effetto sui ragazzi, è lo stesso che ha fatto a me quando avevo 17 anni. Noi spesso lo ingiuriamo con formule di comodo piuttosto didattiche facendolo passare come un rappresentante del pessimismo, non cogliendo il fuoco, la bellezza, la forza che c’è nei suoi versi che hanno il pregio di non nascondere le oscurità della vita, la paura che ci fa tremare, e allo stesso tempo è in cerca di quella luce che riscatta».

Quanto s’è immedesimato nel destinatario della lettera leopardiana?

«Totalmente. L’immedesimazione è un dato di fatto perché quando leggiamo i grandi non siamo noi a leggerli, ma sono loro che leggono noi. Sono dell’idea che i grandi autori, quando li facciamo entrare in camera nostra col rito antichissimo di una lampadina che si accende nella notte, entrino nel nostro intimo, e ci possono vedere fragili, scoperti: e questa è un’immedesimazione che in me dura da sempre. Ogni volta che entro in confidenza con un autore di riferimento è come se chiacchierassi con un amico che mi fa vedere aspetti della realtà che non vedevo».

La fragilità è un handicap o un dono per capire più profondamente noi stessi?

«Leopardi ci fa capire, attraverso il suo testamento finale ne “La Ginestra” che siamo chiamati a fiorire anche nel deserto. Io sono stufo di un’epoca in cui è titolato a vivere solo chi è perfetto, bellissimo e senza difetti: in questa corsa di tutti alla perfezione che non arriva mai c’è un duro affanno. Invece la nostra umanità è bella perché è fragile, ed è solo nella fragilità che concepiamo lo slancio verso l’infinito per creare qualcosa di bello. Fragilità, non come qualcosa da commiserare o un alibi dietro cui nascondersi, ma come condizione di incompiutezza che ci sprona a una bellezza maggiore».

Il suo libro non è un romanzo né un saggio: come possiamo definirlo?

«Non volevo scrivere una nuova storia di Leopardi ma capire come aveva letto tutte le età dell’esistenza, lui che ha avuto una vita molto fragile, è morto a soli 38 anni, ed ha dovuto vivere più in fretta, più in profondità. Quel che cerco di fare in questo libro è capire l’utilità dei poeti veri che sono al servizio dell’uomo quotidiano. A me questo ha fatto Leopardi e perciò immagino l’epistolario, come se avesse scritto a me la sua lettera aiutandomi a trovare il segreto della felicità in ogni tappa della vita».

In che modo?

«Lui voleva scrivere un poema in prosa e in versi sulle età della vita. Non ci riuscì, ed io trasformo il suo progetto in una possibile realizzazione dividendo il libro in capitoli che sono proprio le età critiche dell’esistenza: l’adolescenza come arte di sperare; la maturità come arte di morire; l’arte di essere fragili, una parte della vita che Leopardi inventa e che sembra meravigliosa, e poi il morire come arte di rinascere».

Perché Leopardi è al centro del suo mondo?

«Perché i poeti hanno la capacità di intercettare quello che noi perderemo nel giro di pochi anni. Leopardi veniva schernito per il tipo di poesia che scriveva. Nessuno aveva capito che quei versi ci sarebbero serviti nei secoli a venire per riappropriarci di tutto quello che lui con grandissima pazienza delinea in tutta la sua opera e che avremmo perso l’infinito, la nostra capacità di sognare, di lottare, di fiorire in mezzo alle difficoltà: tutte queste cose Leopardi ce le restituisce nei suoi versi. Nella sua grandezza in questo nostro tempo che vuole eliminare tutti i limiti e i confini, che vuole tutto subito, e non conosce più la pazienza, sta il segreto della felicità».

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