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Rossella e Michele «Tornati in Italia col sogno di portare ricerca doc in Sicilia»

Di Maria Ausilia Boemi |

Rossella Lucà, peraltro, non è nuova agli onori della cronaca: alcuni anni fa aveva fatto un’importante scoperta nella lotta al tumore al seno. «Ho conseguito – racconta – una laurea triennale all’università di Catania in Biologia, la specialistica in Biologia molecolare all’università Tor Vergata di Roma e poi ho proseguito col dottorato in Scienze biomediche all’università Cattolica di Lovanio in Belgio». Dove lavorava anche il marito.

Finito il dottorato, Rossella Lucà, d’intesa col marito, ha deciso di tornare a Roma: «Ho ottenuto prima degli assegni di ricerca al Cnr nel laboratorio della dottoressa Moretti che si occupa di tumori ovarici. Poi ho vinto due borse di studio: una della Fondazione Umberto Veronesi e una dell’Airc. Ho accettato la borsa triennale dell’Airc da gennaio 2016 fino al 2019». Sta portando avanti, sempre nel laboratorio della dottoressa Moretti, uno studio per capire il ruolo di una proteina che agisce nella formazione dei tumori ovarici, neoplasia molto silente di difficile diagnosi precoce, per trovare «un marcatore che consenta di individuare questi tumori in tempo».

È sempre nell’ambito della lotta ai tumori, in quel caso al seno, un’importante scoperta effettuata dalla dottoressa Lucà, col marito Michele Averna, quando erano nel laboratorio di Lovanio: «In quel caso avevamo scoperto una proteina che fino a quel momento si pensava connessa solo nella sindrome dell’X fragile, quindi nel ritardo mentale. Abbiamo scoperto invece che ha un ruolo anche nella formazione di metastasi da tumore al seno: se eliminiamo questa proteina, le metastasi subiscono una forte diminuzione e, in alcuni casi, non si formano». Un’importante scoperta, al momento però in standby «perché il laboratorio da cui sono andata via si occupava prettamente di neuroscienze e io ero l’unica a lavorare sui tumori. Non hanno trovato una persona che potesse continuare su questa strada. In ogni caso, la scoperta di base non è abbandonata: può essere accantonata per un periodo, ma prima o poi si continuerà con la parte sperimentale».

La scelta di tornare in Italia potrebbe averla “penalizzata”, ma per la dottoressa Lucà il gioco valeva e continua a valere la candela: «Avevo questa forte necessità di tornare a fare ricerca in Italia e provare a farla a un livello, se non pari, almeno simile a quello all’estero». Cosa, purtroppo, rivelatasi molto difficile: «È una questione di fondi. La questione è molto semplice: lì ci sono molti più fondi e macchinari. L’unico compromesso trovato è quello di collaborare con l’estero. Occasionalmente, così, da Roma si torna in Belgio, si fanno esperimenti o si collabora con altri gruppi. Le ricerche, tuttavia, almeno nascono a Roma».

Diverso il discorso per il marito che, dal laboratorio di Lovanio, rientrando in Italia «ha deciso di dedicarsi più alla ricerca clinica che a quella di base. Ha provato a lavorare in diverse aziende, poi ha deciso di cambiare totalmente lavoro e cura delle attività ricettive a Roma. Continua a occuparsi di ricerca, ma solo per passione e in maniera non totalizzante, perché in Italia purtroppo la ricerca non è considerata un lavoro e non ci si pagano le spese di casa e di mantenimento».

Non per questo, tuttavia, la coppia siciliana si è scoraggiata, anzi, è più combattiva che mai: «In questo momento stiamo sostenendo la onlus Isoprog (Istituto somatogene per l’oncologia personalizzata e la ricerca onco-genomica): è un’associazione a componente internazionale fondata l’anno scorso a Caltanissetta e che ha come obiettivo quello di creare, in un futuro speriamo non troppo lontano, un buon centro di ricerca nell’ambito dell’oncologia personalizzata in Sicilia. A capo c’è il dottor Pierluigi Scalia di Caltanissetta, professore aggiunto alla Sbarro health research Organisation, istituto del dipartimento di Biologia del College of Science & Technology, alla Temple University di Philadelphia».

Nessun pentimento o ripensamento per la decisione di essere tornati in Italia, dunque: «Siamo tornati pur sapendo che la situazione non sarebbe stata facile. Abbiamo deciso che, anche se ci sarebbe voluto più tempo, saremmo riusciti a fare ricerca nel nostro Paese, possibilmente in Sicilia. Per questo stiamo sostenendo l’associazione Isoprog. Speriamo di fare, se ci riusciremo, qualcosa di grande in Sicilia. Certo, ci vuole tempo…».

Una scelta coraggiosa, dunque, anche se non ancora totalmente vincente: «Dipende. Da un punto di vista personale, ci vuole tempo: all’estero è facile, ci sono i fondi, trovi subito lavoro, diventi ricercatore. In Italia è più difficile, però la sfida è proprio quella: tornare in Italia e cercare di fare qualcosa di grande. Vedremo se ci riusciremo. Noi ci stiamo provando. Se non lo facciamo noi giovani, chi lo deve fare?».

E a proposito di giovani, cosa consiglierebbe loro? «Sicuramente l’esperienza all’estero va fatta, non c’è dubbio: è una crescita sia personale sia professionale. E non parlo di un anno, ma di 5-6. Poi capisco benissimo chi decide di restare all’estero, perché lì è tutto molto più facile, però chi è in Italia dovrebbe cercare di restare, senza rinunciare ai propri diritti: non lavorare gratis, non sottomettersi, farsi valere. Io su questo sono molto combattiva». Insomma, tornare e restituire all’Italia l’investimento che il Paese ha sostenuto per garantire un’ottima formazione ai suoi giovani: «Per quanto riguarda l’università, va fatta in Italia, non c’è dubbio. Io ho assistito agli esami universitari all’estero. Noi siamo molto più preparati e per questo all’estero ci accolgono a braccia aperte». Chiarissimi gli obiettivi della dottoressa Lucà: «Io continuerò sicuramente a fare ricerca, ma l’obiettivo, come dicevo, è quello di cercare di riportare la ricerca in Sicilia. Non in Italia, ma in Sicilia. Vogliamo fare qualcosa di buono per il nostro territorio. Siamo visionari, ma perché non provarci?».

Certo, questo non cancella talvolta dubbi e rimpianti, «ma quando mi vengono – sottolinea la combattiva biologa -, me li faccio passare. Quando sono in laboratorio, a volte penso: “Mannaggia, se fossi stata in Belgio…”. Poi però dico: “Va bene, si può fare anche qui, ce la facciamo”». La differenza sta principalmente nella disponibilità di macchinari dal costo molto elevato: «In Belgio si trovavano al piano di sotto, scendevo e facevo l’esperimento immediatamente. Qui, invece, devo cercare la collaborazione con Milano, o con altri istituti a Roma, rispettare i loro tempi. Insomma, è diverso: chiaramente in Italia non tutti gli istituti si possono permettere macchinari da 100-200 mila euro».

La domanda sorge spontanea: perché l’estero spende in ricerca e l’Italia no? «Secondo me, manca in Italia la consapevolezza che il nostro lavoro di ricercatore è importantissimo, è l’attività di base. Sto parlando della ricerca in generale: fisica, chimica, medica. Senza di noi non ci sarebbero farmaci, i medici non potrebbero curare le persone, non avremmo i pannelli solari, non ci sarebbero telefonini, computer e via dicendo. Bisogna quindi pensare all’importanza del nostro lavoro e non buttarlo via al vento. In Italia, invece, si dà più importanza ad altre cose. Faccio sempre l’esempio del calciatore o del conduttore di Sanremo che guadagnano un sacco di soldi: perché li danno a loro? Cosa fanno loro? Io, invece, cosa faccio? Io cerco veramente di salvare delle vite. Loro mi intrattengono? Per carità, anche l’intrattenimento è importante, non voglio dire che non serve, ma forse 100 mila euro li dovrei guadagnare io che sono iper-specializzata, ho studiato e sono stata fino a mezzanotte in laboratorio di sabato, domenica, Pasqua, Natale. E non mi hanno pagato 100 mila euro per stare a Natale in laboratorio». Uno sfogo, che nulla toglie, nonostante tutto, alla gioia di essere tornata in Italia: «Ho una bella famiglia, il mio bambino Federico, ho il sole, il mare, il cibo. E le difficoltà non mi impediscono di continuare a fare il mio lavoro e di cercare di farlo al meglio».

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