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L’ingegnere che riporta a Catania i “cervelli in fuga”: «Fare impresa qui è possibile»

Di Maria Ausilia Boemi |

Figlio di un pilota dell’Aeronautica palermitano e di madre catanese, l’ingegnere Massaro nasce incidentalmente a Catania, ma gira l’Italia in seguito ai trasferimenti per lavoro del padre. Scomparso il papà prematuramente, la famiglia torna a Catania e Simone si iscrive al Polivalente di San Giovanni La Punta alla scuola per geometri «perché si pensava che questo corso di studi garantisse sbocchi professionali subito dopo il diploma – racconta -. In realtà, due anni dopo, entrò in vigore una normativa per cui i geometri non potevano più firmare progetti per abitazioni. Di conseguenza, dopo il diploma decisi di continuare gli studi iscrivendomi all’università, alla facoltà di Ingegneria informatica, a patto che fossi in grado di mantenermi agli studi e contribuire all’economia familiare». La scelta dell’Ingegneria informatica è dettata dalla passione e dalla spiccata propensione che sin da ragazzino, rigorosamente da autodidatta, Massaro aveva dimostrato per i computer: «A 12 anni producevo già videogiochi, a 14 anni ho guadagnato i primi soldi partecipando a concorsi informatici».

 

Il primo impiego serio arriva però solo ai tempi dell’università, dopo che Massaro partecipa, tramite l’ateneo catanese, a un concorso negli Usa: «L’università mandò un gruppo di studenti in Texas per partecipare a una competizione dell’Organizzazione internazionale per gli standard. Non avendo mai lavorato con un pc – la nostra era tutta conoscenza teorica – avevamo una flessibilità maggiore, per cui, di fronte a una sfida imprevista per tutti, abbiamo ottenuto il risultato migliore, classificandoci al primo posto. Questo ha attratto su di me l’attenzione di alcuni esponenti di Microsoft e di altre organizzazioni presenti al concorso per fare scouting: mi fu così offerta l’opportunità di un’intership negli Usa».

 

Con una conoscenza dell’inglese pari a zero, Massaro si trasferisce a Boston per lavorare per consorzi di aziende, Microsoft in particolare, «con poche cose in valigia e totalmente impreparato. In azienda si resero subito conto che non parlavo inglese e non fui quindi ritenuto in grado di lavorare con i colleghi americani. Mi misero allora a fare controllo di qualità sui software. Con questo lavoro, molto basso come qualifica, ebbi modo di apprendere il punto di vista dell’utilizzatore del software e iniziai a proporre suggerimenti, apprezzati dai miei capi. Mi spostarono allora al marketing e alla scrittura dei manuali di istruzione. E questo mi consentì di fare vedere che avevo anche capacità artistiche, ma soprattutto di comprendere come presentare un prodotto. Nel frattempo, ho migliorato il mio inglese, tanto che a un certo punto decisero che era tempo che cominciassi a lavorare nella programmazione, settore per il quale ero stato assunto. E dopo un po’ di tempo sono diventato responsabile di un’intera divisione di sviluppo».

Nel frattempo, Massaro si laurea a Catania in Ingegneria informatica, con una formazione molto diversa da quella dei colleghi: «La formazione negli Usa è molto professionalizzante, quindi tecnica e verticalizzata, mentre in Italia è molto teorica e trasversale. La differenza è che loro diventano tecnici che sanno svolgere un ruolo e trovano difficoltà a farne altri, mentre la preparazione nostra è molto più flessibile. Così, se uno ha forza di volontà e opportunità, si trova magari in difficoltà all’inizio, ma in seguito ha una marcia in più».

Negli Usa l’ingegnere Massaro lavora per 12-13 anni a varie tecnologie di tipo industriale, diventando un’autorità nel settore specifico delle applicazioni industriali di grandi dimensioni: sviluppo di software che controllano applicazioni militari (per il Pentagono) e la movimentazione della piattaforma di lancio dello Shuttle per la Nasa; applicazioni per il monitoraggio e il controllo di grandi infrastrutture aeroportuali (nello scalo di Heathrow), per la gestione delle metropolitane di Roma, per il controllo dei finger negli aeroporti, per il controllo di navi militari o da crociera, per il settore petrolifero. «Tutte applicazioni molto critiche, distribuite, importanti». Ed entra a fare parte dell’It Council Microsoft (di cui è ancora membro).

Tutto questo finché l’ingegnere Massaro, che nel frattempo si era sposato con una tedesca di genitori italiani e aveva messo al mondo negli Usa due figli (che ora sono tre: Lorenzo, 12 anni, Veronica, 10 anni, e Vittoria, 3 anni), comincia a riflettere sul fatto che quanto veniva realizzato col suo lavoro aveva impatti economici importanti anche per i territori e a porsi domande sugli utilizzi delle applicazioni realizzate: «Fini che in alcuni casi erano benevoli (applicazioni farmaceutiche o nella ricerca e sviluppo), in altri più discutibili (applicazioni militari di varia natura o di monitoraggio e controllo). È quindi nata in me una prima coscienza sul fatto che l’ingegnere che progetta il software è un ingranaggio di una macchina complessa e raramente compresa: ho preso così sempre più coscienza del fatto che bisognava scegliere a cosa lavorare. La seconda cruciale presa di coscienza è stata che questi software erano sviluppati negli Usa da team eterogenei per provenienza geografica, con pochissimi americani che però detenevano di solito le posizioni chiave».

 

Una egemonia geografica non supportata da necessità logistiche, perché l’economia digitale è intangibile e non necessita di una catena di distribuzione, «in quanto basata su transazioni elettroniche e consistente nel costruire software che sono una proprietà intellettuale. È un mercato completamente aperto alla competizione. Ciò significa che se io produco per esempio un videogioco, purché lo traduca in più lingue – presupposto non scontato – lo posso anche vendere in Pakistan o in Cina: è assolutamente irrilevante dove venga prodotto». Da questa consapevolezza, scaturisce nell’ingegnere Massaro una domanda, alimentata dal grande amore per la sua terra: «Perché non è possibile fare altrettanto in Italia, dato che tutto quello che serve è un computer, costo oggi accessibile a tutti?».

Da lì la decisione di rientrare in Italia: un primo tentativo, nel 2009, fallisce perché l’ingegnere Massaro a Catania non riesce a trovare «qualcuno che potesse comprendere le idee che volevo sviluppare sul territorio. Non sono riuscito a trovare un’offerta che avesse un valore economico superiore ai mille euro al mese. Dopo due settimane, sono ripartito, pensando che avrei dovuto raggiungere il mio obiettivo in più step». Massaro si sposta allora in Germania, «perché mi attraeva molto questo Paese, al top in Europa nell’ingegneria e nella tecnologia e soprattutto perché lì stavano nascendo e crescendo le energie rinnovabili, settore dove volevo applicare il mio know how costruito nel tempo. Mi sono così trasferito ad Hannover, “patria” dell’energia rinnovabile». Lì Massaro costituisce una piccola società, Bax Energy, iniziando a costruire software per rendere le rinnovabili più efficienti, ottimizzando il funzionamento delle grandi centrali eoliche, fotovoltaiche, idroelettriche e geotermiche. L’azienda riesce a catturare l’attenzione di alcuni players del settore «perché risolve problematiche gravi, come gli scompensi nelle reti elettriche dovuti a un’energia non programmabile»: prima Edf (l’ente equivalente all’Enel in Francia) per realizzare un progetto in Portogallo, poi in Italia e in Turchia. «Non appena ho raggiunto una massa critica, sono tornato al mio obiettivo principale: ho costituito nel 2011-2012 una società a Catania e, dopo avere organizzato il team, sono rientrato nel 2014. Oggi solo a Catania impieghiamo circa 84 persone, quasi tutte laureate, che avevo conosciuto in giro per il mondo: italiani – molti anche catanesi – che si erano spostati a lavorare negli Usa, a Milano, in Irlanda, in Scozia, e stranieri. Abbiamo offerto loro la possibilità di svolgere un lavoro altamente innovativo a un livello di retribuzione significativo per il territorio».

Dalle energie rinnovabili l’impresa si è espansa a videogames e Iot (Internet of things): «Se guardiamo tutto il gruppo, ci sono più di 120 persone impiegate tra Catania, che è il centro principale, e Siracusa, Esposende in Portogallo, Johannesburg in Sudafrica, Berlino in Germania, Pune in India. Anche a Palermo abbiamo dei piccoli team. Il mio obiettivo è creare un polo di economia digitale che aggreghi più società che operino non necessariamente nel settore energetico, dei videogames o tecnologico in generale, ma che siano accomunate dal fatto che producano beni immateriali e intangibili. Vogliamo creare un campus tecnologico privato in cui siano benvenute tutte quelle società che vogliano essere accelerate, trasformarsi da un’economia locale sul territorio italiano a un’economia digitale internazionale. Non a caso, oggi i nostri interessi principali si sono spostati in India, Sudafrica, Nordafrica, Brasile, Cile, Messico». Uno spostamento che segue gli andamenti di popolazioni in forte crescita demografica, economica e tecnologica: «Nuovi mercati dove l’Italia può diventare protagonista».

Certo, il passaggio all’economia digitale e dell’innovazione, pur non richiedendo infrastrutture, necessita però di politiche lungimiranti, che finora non ci sono state, se non qualche timido tentativo come il Patent box o il nuovo piano Industrie 4.0: occorre diventare più competitivi «perché Paesi come l’Irlanda sono enormemente avvantaggiati da un regime fiscale che defiscalizza le proprietà intellettuali. E non sono defiscalizzate solo le società, ma anche gli italiani che vanno in Irlanda a lavorare per società a contenuto tecnologico. Per essere attrattivi, in Italia dobbiamo spendere il 70% in più rispetto a un’azienda media irlandese». Si deve poi curare la piaga del profitto delle aziende informatiche quasi interamente fatturato all’estero: «Il profitto si può trasferire perché è intangibile. Noi finora abbiamo perso un’opportunità di competitività come Paese, perché ci siamo concentrati esclusivamente sui settori tradizionali del made in Italy (fashion e food), trascurando l’importanza che nel mondo ha la tecnologia».

Anche perché l’ingegnere Massaro, forte dell’esperienza sia all’estero che in Sicilia, non trova – per il settore dell’economia digitale – grandi differenze tra altri Paesi e l’Isola: «Il software si mette sul mercato globale – che, in virtù del fatto di essere globale, è altamente competitivo – e se il prodotto è buono o migliore degli altri, verrà acquistato. La società non ha vincoli geografici, non ci sono i problemi infrastrutturali tipici dell’economia tradizionale. L’unico problema che impedisce in Sicilia il boom dell’economia digitale è, a mio avviso, la tassazione della proprietà intellettuale: a fronte di un’Irlanda che tassa questi introiti dal 5% al 15%, in Italia la proprietà intellettuale è tassata come un introito normale, quindi raggiunge, tra imposte regionali e nazionali, circa il 50%. L’altro svantaggio è quello del costo della manodopera»: non lo stipendio netto che arriva nelle tasche del lavoratore, ma il lordo con tutto il gravame di tasse per l’imprenditore.

Cosa consiglierebbe ai giovani? «È molto complesso, perché si entra in un’altra sfera che è quella del nazionalismo o del patriottismo, che in Italia non è sentito per nulla. Mio padre era ufficiale dell’Aeronautica militare, quindi mi ha “dotato” di un senso e di un orgoglio nazionale diverso da quello tipico legato alla Ferrari piuttosto che alla squadra di calcio. Io consiglio comunque a tutti di andare all’estero, se possibile immediatamente dopo la maggiore età, studiare fuori e trascorrere almeno 3-5 anni in un altro Paese, perché il confronto con gli altri è fondamentale. Poi cercare, nei limiti di quella che è l’attitudine personale, di riportare nel proprio Paese il know how. E se non si trova un’opportunità tramite terzi, questa impresa è la prova scientifica che è possibile mettere in piedi qualcosa da soli».

Nessun pentimento, per l’ingegnere Massaro, rispetto alla decisione di essere rientrato in Sicilia: «Questo non vuol dire che non abbia trovato cose negative, però sono tornato per dare il mio contributo al mio Paese».

Obiettivi? «Aumentare l’economia digitale sul territorio attraverso sinergie e attrarre investimenti privati. Le idee ci sono, gli imprenditori pure, forse nel settore dell’economia digitale manca la comprensione di come internazionalizzare le idee».

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