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Allevatrici e casàre, la tenacia e il coraggio delle "pastoresse" di Sicilia

Carmen Greco

24 Ottobre 2018, 19:01

«Non trovo un pascolo per le mie capre»


Le “mani nel latte”, come dice lei, le ha messe cinque anni fa, dopo 30 anni di convivenza con le capre. Rossella Calascibetta ha lasciato gli studi filosofici a Palermo, per diventare una donna pastore. Oggi non potrebbe stare senza le sue capre, con le quali convive felicemente. Stessa cosa non si può dire per i suoi vicini che non sopportano l’idea di una donna allevatrice e produttrice di formaggi. Una figura che nel resto d’Italia è molto diffusa e qui, in Sicilia, è ancora prigioniera di cliché e pregiudizi.

«Per loro è mentalmente inaccettabile che un donna possa essere prima pastora e poi casàra, di questo ne sono convinta, perché le persone del mestiere con le quali ho avuto a che fare, mi guardano con distacco, con sufficienza, convinte che da un momento all’altro non mi vedranno più, perché sono una donna e, secondo loro, non ho la possibilità di continuare».
I “segnali” che le vengono inviati per convincerla a mollare sono chiari. Innanzitutto nel territorio di Monreale i suoi prodotti non si vendono. «L’idea del formaggio di capra in paese viene disdegnata, non so perché. C’è una mancanza di conoscenza, ma anche una volontà di non voler conoscere questo prodotto. Si è perso qualcosa, però. Una volta, le nonne, le madri, avevano tutte una capra in casa che serviva all’alimentazione della famiglia anche perché è un tipo di latte che si avvicina di più a quello umano».


Ma il problema più pressante, al momento, è quello di trovare un pascolo per i suoi animali (circa 120). «Ci sono posti dichiarati solo come allevamenti - dice Rossella Calascibetta - che producono comunque latticini (di vacca e di pecora ndr), però aziende che operano alla luce del sole ce ne sono pochissime. Qui sono rimasti praticamente fermi agli allevamenti e non hanno proseguito con un progetto di filiera. Attività che passano di padre in figlio i quali hanno in mano il 100% del territorio e seguono regole non scritte che penalizzano la mia presenza qui. Non riesco, se non facendo degli sforzi e pensando di comprare qualcosa - infatti vorrei fare un mutuo per acquisire un lotto di terreno - ad entrare in alcuno dei pascoli del circondario, anche se è notorio che le capre si nutrono d’altro rispetto a vacche e pecore e potrebbero convivere tranquillamente. Per adesso, sono in affitto, a 400 euro al mese, in un posto in cui ho già ricevuto lo sfratto e tre settimane fa, sono arrivati anche i Nas per un controllo. Hanno trovato tutto in regola, ma avevano in mano una denuncia e dovevano fare il loro lavoro, li capisco. Alla fine mi hanno detto “Ma come fa a resistere?”».

È vero che le hanno creato problemi anche in paese?

«Ho fatto la scelta di voler riaprire un piccolo caseificio in paese e, da un giorno all’altro, è stato soppresso lo scarico a servizio del laboratorio. Mi hanno detto che c’era una denuncia in prefettura perché questo scarico - a detta dei vicini - non serviva più, in quanto la mia non era un’attività commerciale e, quindi, non ne avevo bisogno. Ma se io ogni mattina porto lì 80 litri di latte per lavorarli, la mia non è un’attività commerciale? Oggi mi pento di quella scelta, forse avrei fatto meglio a stare lontano visto che c’è questa ostilità palese nei miei confronti e magari sarei stata più vicina alle mie capre invece di fare su e giù».


Perché, adesso cosa fa?

«Una vitaccia. Ogni giorno quando arrivo con il mio latte cerco di mettermi dove posso. Ho parlato con il comandante dei vigili che sta cercando di ripristinare la situazione. Purtroppo viviamo in un contesto molto difficile. Per fortuna ho trovato la solidarietà da parte delle Istituzioni e dei veterinari dell’Asp».


Non le viene mai voglia di scappare?

«Devo dire che ogni tanto mi viene il desiderio di andarmene. Anna Kaufer (un’architetta paesaggista che fatto uno studio sulle donne pastore in Italia ndr) mi dice “Vieni qui a Parma che il mondo è totalmente diverso”».


Ha mai avuto paura?

«Paura no, perché la paura inquina e uccide i sentimenti, difficoltà tante. Nessuno vuole collaborare con me, dividere un pascolo o lavorare il latte insieme. Eppure basterebbe solo conoscersi, dialogare. Io voglio solo lavorare, mi basterebbe trovare uno spazio. Chissà quanti terreni abbandonati ci sono che il Comune potrebbe mettere a disposizione. Proprio in queste giorni degli amici mi hanno prospettato la possibilità di chiedere l’affidamento di un lotto di terreno che appartiene al Fondo edifici di culto, una storia di esproprio alla chiesa fatta da Rosolino Pilo per i siciliani che poi rimase alla prefettura... speriamo bene».