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Elena, la tragicommedia dove si ride e si piange

Di Pinella Leocata |

Hanno preso il via le Rappresentazioni Classiche di Siracusa. Stasera è stata la volta di Elena di Euripide.

L’ Elena di Davide Livermore agisce e si racconta sull’acqua, che è mare, specchio, memoria, elemento dalla forte connotazione simbolica strettamente connesso alla lettura che il regista fa della tragedia di Euripide con cui, al Teatro greco di Siracusa, è stata inaugurata la cinquantacinquesima stagione degli spettacoli classici della Fondazione Inda.

L’impatto visivo è spiazzante. Siamo a teatro e siamo sul mare. La scena allagata da cui affiora, imponente e semiaffondato, un brigantino inglese del primo Ottocento. Il suo albero maestro è spezzato, e a pochi metri, sulla spiaggia, affiora una tomba. E’ la scena di un naufragio. Ed è qui che Elena esordisce con un’affermazione che lascia di stucco. «Quella di Troia non ero io. Era un fantasma fatto di cielo». La vera Elena – racconta il testo di Euripide – non ha mai seguito Paride a Troia, ma si trova in Egitto, ospite del re Teoclimeno che vuole sposarla contro il suo volere. Ma quando la situazione sembra precipitare ecco che, proprio su quella costa, approda suo marito Melenao, reduce da Troia e naufrago con uno sparuto numero di soldati. Insieme, marito e moglie, dopo avere raggirato il re, fuggono via mare alla volta di Sparta.

«Una tragedia che si apre con supercazzola gigantesca – commenta Livermore – con la donna che ha causato la guerra di Troia che dice: “Non ero io. Quella era un fantasma fatto di cielo”. Un esordio che rivela subito l’orrore che Euripide ha della guerra e della violenza. “Ma come? Abbiamo combattuto per decenni e abbiamo causato e subìto un incredibile bagno di sangue per una nuvola? E’ una delle dichiarazioni più forti che abbia mai sentito contro la violenza. Qui Euripide mostra la sua grande avversione contro la guerra. La sua Elena si racconta in un autoinganno che amplifica il messaggio antimilitarista e lo sconcerto di tutti i protagonisti per l’assurdità di una guerra che ha causato un enorme bagno di sangue». Una tragedia che – proponendo il tema di una doppia Elena, come aveva fatto già Stesicoro – rappresenta il riscatto di un personaggio considerato a lungo devastante. Un esordio in cui si disvela con immediatezza la specificità di questa opera che è «un animale composito meraviglioso in cui si ibridano tragedia e commedia».

Un dramma che strazia, eppure sollecita il riso, due moti del cuore della cui espressione il regista Livermore si assume tutta la responsabilità. «Elena è un crossover incredibile. Vi si trova l’archetipo dell’opera buffa settecentesca e gli straordinari ariosi, tempo dell’anima e ritmi dell’azione.

E’ una sorta di dramma giocoso in cui si piange e si ride». Ed è difficile farlo in Italia, dove si ha pudore del riso, tant’è che quest’opera non viene rappresentata da 40 anni. «Siano pieni di cultura, ma aprire il cuore e l’anima è sempre complicato. Io mi sono messo a servizio del testo».

Una fedeltà che il regista rivendica con orgoglio perché questo per lui è il teatro: «scuola di serietà e di verità». «A teatro non si può bluffare: si sente subito se qualcuno stona o è intonato, se va a tempo o no. Il teatro è palestra di verità e di semplicità. E’ rito collettivo, crea relazioni, consegna utopie e ci proietta nel futuro, anche da un punto di vista economico». Ed è responsabilità degli artisti, e loro ruolo nella società, «restituire ai giovani il sapere ricevuto, trasmettere una memoria profonda. Perché è questo che crea identità e futuro». Memoria tanto più importante in Italia, un Paese che vuole dimenticare il passato, «che rimuove l’agguato di via Fani e la strage di Capaci. Un Paese che merita solo un museo all’Alzheimer».

Fedeltà al testo per Livermore significa rifuggire da scelte di regia mirate solo a impressionare, a promuovere il regista. Furbate grossolane che tradiscono il testo. «Una violenza sessuale in scena, o fare entrare una Harley-Davidson funziona, stupisce, fa parlare di sé. Io preferisco far parlare la storia ed eventualmente usare questi elementi se sono funzionali al testo». Per questo anche il dislocamento dell’azione scenica in un altro tempo è legittimo se rispetta lo spirito dell’opera.

Livermore sceglie di ambientare l’Elena di Euripide in epoca pre-vittoriana, quando si afferma il neoclassicismo e l’Occidente riscopre le sue radici culturali greco-romane. Di qui la scelta del brigantino inglese semiaffondato che incombe sullo specchio d’acqua della scena. Una dislocazione temporale che il regista torinese aveva già attuato nella sua messa in scena de I Vespri siciliani del 2011, per i 150 anni dell’Unità d’Italia, ambientando l’opera ai nostri giorni, nel pieno rispetto della volontà di Verdi che aveva voluto denunciare il giogo straniero. E il giogo che oggi ci schiaccia è altro, «siamo succubi della televisione, della politica senza faccia e delle connivenze».

Dunque una lettura attenta del testo e una traduzione scenica fatta «con onestà intellettuale» e attraverso «una ricerca etica ferrea dal punto di vista metodologico». «Guardo il testo per capire cosa vuole dire e cosa voleva comunicare l’autore alla società cui si riferiva. Io non comando, servo il testo». Un criterio che ha guidato Davide Livermore anche nella scelta della traduzione del testo, quella di Walter Lapini, «arcaica, ma non in maniera compiaciuta, e non banalizzante, perché questo non è teatro borghese». «Una traduzione poetica» e anche musicale, dunque, come lo è la lettura metrica del testo.

E del resto la tragedia è spettacolo globale, rappresentazione impregnata di musica. Per questo Livermore ha immaginato tutto il palcoscenico come un grande strumento musicale dotandolo di sensori che s’innescano con il movimento dei piedi. E musicale è anche lo sciabordio dell’acqua, elemento che fa parte del percorso che il regista porta avanti da anni con il compositore Andrea Chenna. «Una forma sperimentale in cui la parola è sostenuta dall’armonia e ci permette di capire se intonarla o pronunciarla con una differenza espressiva e non tecnica».

Non solo. Tutta la messa in scena fa un ampio uso dell’amplificazione e di tecnologie avanzate, come facevano i greci, grandi innovatori anche in questo campo, tanto da usare maschere di rame munite di trombini per variare il colore alle voci dei personaggi. Non cembali e cetre, dunque, ma tecnologie avanzate, «segni antichi tradotti per l’attualità».

Analogo criterio ha improntato la scelta degli attori, dei coristi – cui è affidata la responsabilità «di dare il suono di quello che dice il testo» – e soprattutto dell’attrice che interpreta Elena, Laura Marinoni, «artista straordinaria, con un grande cuore, una forte sensibilità e grande coscienza verso il testo». A lei, che si muove sul mare della memoria e i cui pensieri vengono proiettati su una enorme lastra sospesa sulla scena, è affidato il compito di narrare questa Elena che «esordisce da vecchia e ridiviene giovane reinventandosi per tornare ad essere se stessaCOPYRIGHT LASICILIA.IT © RIPRODUZIONE RISERVATA

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