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La Woodstock del popolo di Vasco Rossi: concerto record con 220mila spettatori

Di Giuseppe Attardi - Inviato |

MODENA – Più che un luogo di concerto sembra una città, un paese galleggiante su un martellante tappeto di suoni. Il colpo d’occhio è travolgente, quasi irreale, con il Parco Enzo Ferrari di Modena trasformato in una foresta di braccia e volti in movimento. E tutto questo per un concetto rock, un’idea, un rapimento elettrico, una rapsodia di ruvidi umori emiliani. Come tutto questo possa alimentare il sogno collettivo di migliaia di ragazzi venuti da ogni parte d’Italia è un piccolo miracolo.

Se lo ricorderà a lungo, Vasco Rossi, il suo “concerto dei record”, la sua personale Woodstock, questo folle prurito di fare qualcosa che non era mai stato fatto prima, trasformato in una distesa di erba dominata da un palco-Moloc alto come un palazzo di otto piani, megaschermi che si muovono su binari fino a formare un enorme quadro, 29 torri che diffondono equamente il suono su tutto il terreno, 220mila persone certificate dallo sbigliettamento. Un concerto unico che vale un tour, anzi di più, è un concerto che vale quarant’anni di carriera, una produzione non ideata per girare, pensata per vivere e bruciare in una sola notte, hic et nunc. È questo il messaggio arrivato alla gente: non perdete l’occasione perché quello che accadrà sarà per una sola volta, non si ripeterà mai più.

Quando le luci del fronte del palco si accendono la marea umana è pronta all’abbandono. E allora: «Benvenuti nella leggenda». Tutto quello che avreste voluto ascoltare da Vasco è lì: oltre tre ore e mezza di concerto, i fuochi d’artificio, le videostorie, una valanga di canzoni divise nei diversi momenti della serata. La prima parte è dedicata agli anni ’80, l’irriverenza: “Colpa d’Alfredo”, “Alibi”, “Blasco Rossi”, “Bollicine”. Vasco ripercorre la sua storia a ritroso. La politica di “E il tempo crea eroi”, gli inizi di “Anima fragile” con Gaetano Curreri al piano. Si gioca a rimpallo fra anni Ottanta e Novanta con tutti “Gli spari sopra”. Le illusioni e le delusioni. “Stupendo” e “Vivere”. E poi “Liberi Liberi”, che fa da ponte tra i due decenni. Fino ad arrivare agli anni Duemila, a “Siamo soli”, “Sono innocente”, “Un mondo migliore”, “I Soliti”. Quarant’anni racchiusi in un giorno, dal tramonto all’“Albachiara”.

Pier Vittorio Tondelli scriveva alla fine degli Ottanta come il successo del suo corregionale non dipendesse tanto dal messaggio musicale quanto da «un atteggiamento, una storia vissuta, una mitologia. In anni in cui tutto stava andando verso la normalizzazione, il carrierismo, il perbenismo, Vasco, con la sua faccia da contadino, la sua andatura da montanaro, la sua voce sguaiata da fumatore, il suo sguardo sempre un po’ perso, diventava l’idolo di una diversità». Diversità comportamentale, non politica. Da qui gli inni esistenziali, genericamente contro (ma contro chi? È sempre colpa di Alfredo?). La sua capacità di fiutare il mugugno popolare, quel suo captare il malessere giovanile (e non solo giovanile), hanno un che di rabdomantico: di geniale. Ligabue, pure lui lodevolmente longevo, in confronto è un novizio. Gli anni passano, Vasco no. Persino la vecchiaia, in lui, ha tratti iconoclasti.

Vasco non nasconde le ferite: le ostenta. Mostra un corpo orgogliosamente refrattario a diete e salutismi. I capelli non ci sono più, il cappellino all’indietro sarebbe per tutti un vezzo improponibile: non per lui. Lui può, perché è Vasco. Sul palco, che in Italia domina come nessuno, somiglia ancora alla descrizione di Edmondo Berselli: «Sulle assi del palcoscenico si muove come un tacchinone, saltando qua e là con balzi che il peso rende magnificamente goffi, e quando si avvicina alla chitarra solista, mimando con audacia il riff spalla a spalla con il chitarrista, sembra il ritratto dell’ex giovane che si è lasciato un po’ troppo andare». Eppure funziona.

Più ruspante che demoniaco, più sfatto che dannato. Per non parlare della gestualità da camionista triviale, le mani unite a mimare l’organo femminile e la folla infoiata che grida «la la la la la la, fammi godere!». O lo sfottò per Giovanardi, storico nemico nella battaglia per la liberalizzazione dello spinello che qui, a Modena, è di casa. Solo un capo-curva? Così dicono i suoi detrattori, dimenticando che Vasco era ritenuto da Fabrizio De André il suo erede.

Vasco non è un rocker: è un (punto di) riferimento. Più della sua arte, conta la sua percezione. Soltanto Vasco può far sì che mantra di esilità adolescenziali («Voglio trovare un senso a questa vita, anche se questa vita un senso non ce l’ha»), se pronunciati da lui assurgano a Verbo. Un Verbo dove la donna è mantide («è andata a casa con il negro, la troia!») o rarefatta come la paradigmatica Albachiara. Dove tutto è eroico: anzitutto la sopravvivenza.

Non più uomo, Vasco, bensì postulato. Coerente a prescindere, divinizzato per plebiscito. Immortale in quanto (amico) fragile. Non si discute: si ama. C’è, nella sua cifra, una particolarissima capacità di coniugare devianza e mainstream, ballate col cuore e folgorazioni di pancia («Perché la vita è un brivido che vola via / è tutta un equilibrio sopra la follia»). Vasco è il ribelle post-moderno. Così apolitico da suonare (quasi) eversivo. Così furbo da sembrare (quasi) candido. Nella sua imprecisata insoddisfazione, che i politologi definirebbero “qualunquista”, c’è la declinazione – da quotidiano a forma d’arte – dell’indistinto fastidio per un mondo che «fa venire il vomito», governato com’è da «queste facce qui, non mi dire che son proprio quelli lì». Mondo squallido eppure «stupendo», perché (da qualche parte) si possono mangiare ancora le fragole. Come nella canzone “Sally”. Quasi come nei film di Bergman.

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