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Le collisioni pop dei Baustelle

Di Giuseppe Attardi |

«Credo che ci sia una affinità, che vogliano dire la stessa cosa, ovvero che c’è pop e pop. Nel senso che si può fare musica pop con lo stesso spirito con cui un compositore di musica classica scrive una sinfonia. Ovvero, si può fare ancora pop con la cura per il dettaglio, la cura per le melodie, per l’armonia, per l’arrangiamento. Mario ha sempre lavorato così, ha sempre fatto canzoni pop, ma sono canzoni pop particolari, che hanno una loro personalità, e così dovrebbe essere. Secondo me, le cosiddette canzonette, la musica leggera, possono avere ancora tante cose da dire».

I Baustelle lo fanno, in modo intelligente, mescolando sacro e profano, Pasolini e Diabolik, Foster Wallace e Amanda Lear, D’Annunzio e Sandokan, Jacques Prévert e Michel Houellebecq. Musicalmente, mettono in collisione l’alto e il basso della musica: Beethoven e Electric Manouvres in the Dark, Depeche Mode e Viola Valentino, Abba e Moroder, Rondò Veneziano e Oliver Onions, Fabrizio De André, Franco Battiato e Lucio Battisti, il punk e il pop in un “helter skelter”, un saliscendi tra i Beatles e Charlie Manson, tra l’orrore che appare nelle pieghe della quotidianità, le guerre vere che ci circondano e quelle interiori che possono essere non meno pericolose. «Se vogliamo trovare un riferimento musicale e letterario, nel titolo dell’album c’è anche il nostro grande amore per il Cohen di Songs of Love and Hate».

Pornoromantici, cinici decadenti, esistenzialisti post punk, Francesco Bianconi, Rachele Bastreghi e Claudio Brasini, ovvero i tre Baustelle, giocano a tenere insieme gli opposti e scrivono «canzoni d’amore in tempo di guerra, istruzioni sentimentali per una sopravvivenza non troppo spiacevole», spiega con il solito aplomb il leader Bianconi.

«È un modo per cercare di rendere interessante e ancora viva una forma, che è un po’ ampiamente codificata e abusata, come è la canzone di tre minuti. Anche da ascoltatore ci sono ancora cantautori, cantanti, band che rendono nuove queste forme vecchie. Per rinnovarle, ad esempio, bisogna avere il coraggio nei testi di dire cose che non siano sempre per forza rassicuranti, utilizzare un lessico un po’ più ricercato, sperimentare anche a livello musicale, timbrico. Scegliere sempre la strada più semplice diventa noioso, uno dei miei più grandi nemici è la noia. E questo mestiere meraviglioso che faccio con i Baustelle deve essere creativo. Se i mestieri creativi ti annoiano è la fine. È meglio fare un altro lavoro, allora».

“Io non ho voglia di ascoltare questa musica leggera” canta Bianconi alla Battiato in Il Vangelo di Giovanni. «Può essere presa più o meno alla lettera quella frase. Può voler dire non sentirsi perfettamente allineati con il mondo in generale in questo momento storico, oppure può voler dire non sentirsi troppo allineati con la proposta di musica leggera che c’è in giro. Non sento cose particolarmente eccitanti. Ahimé».

Anche se i mass media dedicano paginoni alla nuova generazione di musicisti, parlano di una nuova ondata di autori. «Ci sono cose belle e altre meno belle, non voglio generalizzare dicendo che tutto fa schifo. Sicuramente, trovo in generale una maggiore pigrizia creativa dal punto di vista sia musicale sia testuale. Le cose che sento in giro, anche da parte della nuova generazione di autori, mi sembrano un po’ troppo rassicuranti. Ma forse mi sbaglio».

L’amore e la violenza, invece, è tutt’altro che rassicurante. Come la storia di Betty il nuovo singolo che accompagna il tour estivo dei Baustelle che, dopo un blitz domani sera a Milo per la rassegna “La luce del Sud”, il 10 agosto farà tappa al Teatro di Verdura di Palermo e l’indomani all’anfiteatro Falcone e Borsellino di Zafferana Etnea. «Betty l’ho scritta pensando a una ragazza ipotetica metropolitana nel 2017, ma l’ho scritta pensando che potrei essere io questa ragazza. Credo che Betty sia il ritratto di tutti noi all’interno di questa orchestrazione sociale dell’Occidente. Trasportati dalla corrente, anche quando ci sembra di essere trasgressivi, contro, in realtà, non nuotiamo mai per conto nostro, siamo costretti a fare le stesse cose, ci illudiamo di essere moderni, tecnologici. Andiamo agli aperitivi e ai concerti, incontriamo persone per strada, nei bar e nelle camere da letto. Abbiamo profili memorabili e foto che non riusciamo a stampare. Vorremmo sedurre il mondo. A lei piace una musica, a me un’altra. Spesso facciamo le cose che non vorremmo fare. Quando non stiamo insieme la spio. Come lei, senza un motivo a volte rido e a volte piango. In questo senso mi sento anche io Betty, non mi tiro fuori. Nuoto anche io in questo mare».

Malinconia, rassegnazione e una dolcezza mista a compassione nei confronti della condizione umana e una sorta di «pessimismo cosmico» pervadono l’intero album. «Pessimista? Semplicemente realista. Preferisco essere realista piuttosto che moralista. È la mia filosofia della vita. Non mi aspetto granché dal mondo, ma credo nella tensione verso il bello, anche nella musica, contro l’omologazione e l’appiattimento culturale».

Dal vivo, L’amore e la violenza diventa uno show coloratissimo, con scenografie che si ispirano alle trasmissioni musicali televisive dell’Italia pop tra anni Settanta e Ottanta, look stilosissimi, una scaletta molto da ballare in cui spicca una cover diversa in ogni città: «Colorato perché il nuovo album è colorato dal punto di vista timbrico, ci sono più suggestioni rispetto a Fantasma, il nostro disco precedente, più cupo anche per la presenza dell’orchestra, con stile classico. E poi ci ha preso questa strana voglia di fare a un certo punto della scaletta una cover di canzoni inglesi o americane, fine anni Ottanta-inizio Novanta, Rem, Pixies, Nick Cave, canzoni d’amore e di violenza che ascoltavamo quando eravamo un po’ più giovani».

E adesso che siete un po’ più adulti cosa ascoltate? «Continuo ad ascoltare cose di quando ero più giovane, quindi musica del passato, anche pre-esistenti a me, perché c’è sempre da imparare. Poi cerco anche di tenermi aggiornato, ascolto cose nuove, principalmente musica straniera… Non voglio fare l’esterofilo, ma mi sembra che le idee più interessanti continuino ad arrivare dall’estero».

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