serie A
“Non è più la Juventus”: lo sfogo di Ezio Greggio scuote i bianconeri dopo il ko di Napoli
Il conduttore accende il dibattito: attacco frontale a società, dirigenti e calciatori dopo il 2-1 del Maradona. Tra investimenti estivi e scelte tecniche, perché la sconfitta contro il Napoli fa più male del solito
Una sciarpa bianconera ripiegata sul sedile dell’auto, il telefono che vibra senza sosta, i social che ribollono. È la sera di domenica 7 dicembre: a Napoli si è appena chiuso un 2-1 che non è “una sconfitta qualunque”. Mentre i tifosi della Juventus rientrano a casa, su Instagram compare un lungo post che in pochi minuti diventa il centro del discorso: quello di Ezio Greggio. Il volto di “Striscia” non usa filtri, contesta la strategia della società e mette in fila, uno per uno, i bersagli: dirigenti, allenatore, giocatori. Poi il colpo di fioretto che fa il giro della rete: “Anche stasera Giovanni e Umberto Agnelli non riposeranno in pace”. Non è solo uno sfogo: è la fotografia di un malessere diffuso, esploso nel momento in cui il Maradona ha restituito alla Juventus un verdetto che pesa più del risultato.
Un ko che scopre le crepe
Al di là dell’emozione, i numeri raccontano perché la ferita brucia. Il Napoli di Antonio Conte batte la Juve di Luciano Spalletti con la doppietta di Rasmus Højlund e vola in testa, mentre i bianconeri restano a rincorrere e perdono l’imbattibilità dell’era Spalletti. Nel tabellino spiccano anche un dato simbolico — gli angoli: 9-0 — e le scelte che hanno segnato la serata: Kenan Yıldız titolare, Loïs Openda inizialmente in panchina, poi dentro nel finale; Jonathan David subentrato a inizio ripresa; Juan David Cabal dall’inizio sulla fascia. Dettagli? No: indizi che tengono insieme il discorso tecnico e quello di mercato.
In conferenza, Spalletti ha parlato senza giri di parole: “Juve scolastica”, “ci siamo impantanati”, “dopo l’1-1 non abbiamo forzato mai la giocata”. E sul cambio di Yıldız con Openda la spiegazione più eloquente: “Openda è un giocatore che è costato 50 milioni: anche lui deve fare di più”. Una frase che suona come un promemoria pubblico sul peso delle scelte estive.
Lo sfogo di Ezio Greggio: nomi, accuse, una ferita aperta
Nel suo post, Greggio non lesina giudizi: definisce “incapaci e inesperti” alcuni dirigenti, parla di acquisti “di bidoni”, fa nomi e cognomi — Openda, David, Cabal — e allarga il tiro alla qualità complessiva della rosa: “Questa non è più la Juventus”, scrive, invocando il ricordo degli Agnelli. Lo stesso tenore ricompare su altri canali che riprendono le sue parole, a dimostrazione di un’eco mediatica istantanea. Lo sfogo non è un’eccezione isolata: già in passato il conduttore aveva alternato stoccate e attestati di fiducia, segno di un tifo viscerale che reagisce — spesso a caldo — ai saliscendi della squadra.
Investimenti d’estate: promesse, numeri e realtà
Per capire il bersaglio delle critiche, bisogna tornare alla mappa del mercato: in estate la Juventus ha innestato Jonathan David — contratto fino al 2030, arrivo a parametro zero dopo il quinquennio al Lille — e, nell’ultima parte della finestra, ha definito l’operazione Loïs Openda dal RB Leipzig. Due colpi di gamma internazionale per alzare cifra tecnica e profondità offensiva. Sulla fascia mancina, già nell’anno precedente, era stato inserito Juan David Cabal, profilo in crescita, rallentato però da un grave infortunio nei mesi scorsi. Ma c'è anche Jonathan David: ingaggio pluriennale, curriculum da 109 gol complessivi con il Lille e ruolo da riferimento mobile. Scelta coerente con l’idea di un attacco rapido, associativo, capace di scambiare posizioni.
Sulla carta, tasselli per ridurre il gap con una Serie A in cui Napoli, Inter e altre contendenti hanno innestato giocatori pronti subito. Sul campo, però, la sintesi è ancora lontana: alternanza di scelte — Yıldız “falso nove”, staffette tra David e Openda, rotazioni forzate — e prestazioni in chiaroscuro hanno finito per riportare al centro il tema più impopolare: la qualità media della rosa e l’aderenza dei singoli all’idea di squadra.
Napoli-Juve: cosa non ha funzionato
Il Maradona ha offerto un laboratorio spietato. Nei primi 45 minuti il Napoli ha preso il controllo con aggressività e ampiezza; la Juve ha faticato a risalire pulita, perdendo seconde palle e campo. L’1-0 iniziale, firmato Højlund, è il manifesto di un problema: difesa sorpresa in area, marcature saltate, letture in ritardo. Nella ripresa, l’assetto uomo su uomo e l’ingresso di David hanno ridato ossigeno; l’1-1 di Yıldız ha illuso, ma un’altra disattenzione ha spalancato la porta al raddoppio del danese. Fine del film.
Se si scava, si scopre un filo rosso: la mancanza di continuità dentro la stessa partita. Lo ha detto Spalletti: “Dopo l’1-1 abbiamo preso il pallino ma abbiamo fatto cose troppo scolastiche”. Traduzione: poca aggressione delle linee, poche giocate “a forzare” i tempi, difficoltà a manipolare la pressione avversaria. Sono limiti di sistema (automatismi non ancora rodati) e limiti individuali (giocatori che, in certe serate, non hanno il passo o la lucidità per alzare l’asticella).
Il peso delle parole: quando la comunicazione diventa parte del problema
Che un tifoso illustre come Ezio Greggio si esponga così, con nomi e accuse dirette, non è un dettaglio marginale. La Juventus è — da sempre — un ecosistema in cui pressione, aspettative e identità si alimentano a vicenda. La sconfitta di Napoli ha innescato un cortocircuito: l’idea che gli investimenti non abbiano portato il salto immediato atteso e che la nuova gestione tecnica debba ancora trovare la sua lingua. In questo contesto, il “rumore” esterno diventa un acceleratore di instabilità. Eppure, proprio qui si misura la tenuta di una società: nel proteggere l’allenatore, dare cornici chiare ai giocatori, dettare una direzione.
Non è la prima volta che Greggio interviene: in primavera aveva contrapposto la vitalità vista con Igor Tudor alla gestione di Thiago Motta; a febbraio, dopo un’eliminazione, aveva confessato di aver cancellato un post “di pancia”. Questo pattern aiuta a leggere il personaggio: pungolo costante, termometro del tifo più esigente. Che piaccia o no, il suo sfogo intercetta una percezione reale: la Juventus non somiglia ancora alla Juventus che i suoi tifosi hanno in mente.
Openda, David, Cabal: profili, aspettative, prossimi passi
Chiamare questi nomi “bidoni” — come ha fatto Greggio — è una semplificazione che serve alla polemica, non all’analisi. Il punto corretto è un altro: a che punto è l’integrazione tecnica e mentale di questi profili dentro la Juventus?
Openda è un finalizzatore verticale che vive di spazi e corse in campo aperto: per accenderlo servono recuperi alti, transizioni pulite e compagni capaci di servirlo “in corsa”. Se il contesto lo costringe spalle alla porta e in ricezioni statiche, il suo impatto cala. Non a caso Spalletti ha chiesto “di più”: letture, contro-movimenti, partecipazione senza palla. La cifra investita (50 milioni) certifica un ruolo da protagonista: il club, più che crocifiggerlo a dicembre, deve accompagnarne la crescita dentro un sistema che lo metta nelle condizioni ideali.
Jonathan David ha caratteristiche complementari: lavora tra le linee, attacca il primo palo, lega bene con i trequartisti. Il suo curriculum dice che il gol non è un problema; il presente segnala che il salto di contesto — pressioni, ritmo, richieste — chiede tempo e continuità. La gestione del minutaggio, alternando titolarità e staffette, dovrà essere chirurgica.
Juan David Cabal ha attraversato una curva accidentata, tra stop e ripartenze. In serate come quella del Maradona, paga in marcatura stretta e nelle letture della profondità, ma resta un profilo con atletismo e margini. Qui la parola chiave è “pazienza”: gli errori si correggono con lavoro e concorrenza interna.
La responsabilità della società: continuità, idee, scelte
Lo sfogo di Greggio tocca un nervo sensibile: la percezione di una dirigenza che, tra cicli e cambi, non abbia ancora restituito una direzione limpida. Eppure, a bilancio, gli interventi ci sono stati: dalla dirigenza rinnovata all’investimento su profili internazionali, passando per l’innesto di un allenatore carismatico come Spalletti. Il punto è la coerenza: ogni mossa di mercato deve rispondere a un modello di gioco e a una timeline. Se vuoi una Juve verticale e feroce, selezioni giocatori da campo lungo; se pensi a un possesso posizionale, privilegi tecnica e geometrie. Oggi la squadra sembra nel mezzo, e le partite come quella di Napoli amplificano la dissonanza.
Perché le parole contano (ma il campo conta di più)
“Questa non è più la Juventus”: l’iperbole di Greggio fa notizia, ma non esaurisce il discorso. La verità sta dove si sudano i concetti: allo JTC, negli allenamenti che trasformano un concetto chiave in automatismo. Se la Juve saprà tradurre la scossa — mediatica e tecnica — in una settimana di lavoro feroce, il ko di Napoli diventerà un punto di svolta; altrimenti resterà l’ennesimo promemoria di un limite che torna. In fondo, la differenza la fanno tre parole: idee chiare, tempi giusti, coraggio.
Intanto, ai tifosi che si chiedono se gli investimenti estivi siano stati utili, conviene ricordare una regola antica del calcio: i giocatori vanno giudicati nel contesto. Openda diventa devastante quando la squadra lo lancia nello spazio; David appare decisivo quando riceve “tra le linee” e ha corse attorno; Cabal cresce se è protetto da distanze corte e aiuti. La Juventus deve costruire queste condizioni, non sperare che nascano da sole. È qui che la società si gioca la credibilità: proteggere il progetto, resistere alla tentazione del tribunale quotidiano, e pretendere dai calciatori — tutti, senza eccezioni — un salto di qualità misurabile in campo.
Al Maradona hanno vinto gli applausi, i numeri e un’idea chiara. A Torino, per tornare a chiamarsi “Juventus”, serve che quelle tre cose camminino insieme. E in fretta.