il lutto
Addio a John Robertson, il maestro silenzioso: il Forest perde il suo “Picasso” del calcio a 72 anni
Il genio più nascosto dell’epopea di Brian Clough: due Coppe dei Campioni, un cross che ha cambiato la storia, un sinistro che ha gelato Madrid. E un’eredità che va oltre le cifre
John Robertson non c’era più. Nel silenzio irreale del City Ground, qualcuno ha riavvolto il nastro e ha sentito un mormorio antico, quasi un comando tecnico: “Give it to Robbo”. Bastava dargli palla e il resto lo faceva lui, senza fronzoli, come un artigiano di bottega che incide il legno fino a trovare la forma perfetta. A 72 anni, si è spento il calciatore che più di ogni altro ha dato ritmo, geometria e senso a quella straordinaria stagione del calcio europeo in maglia Nottingham Forest. La notizia è stata confermata dal club e dalla famiglia: se n’è andato “serenamente, dopo una lunga malattia”, lasciando un vuoto che è tecnico ma soprattutto umano.
Un’epopea nata da un cross e sigillata da un sinistro
La storia europea del Forest si può raccontare con due immagini scolpite nella memoria. La prima: **Monaco, 30 maggio 1979. Trevor Francis si allunga sul secondo palo, di testa: è 1-0 al Malmö, la Coppa dei Campioni alza il sipario sulla favola inglese. Quel pallone arriva dalla sinistra, con la misura dei grandi conoscitori del gioco: l’assist è di Robertson. La seconda: **Madrid, 28 maggio 1980, Santiago Bernabéu, un controllo, un passo dentro, il sinistro che s’infila sul primo palo e l’Hamburg si arrende. 1-0, di nuovo. Due finali, due partiture differenti, un unico direttore d’orchestra sulla fascia sinistra.
Il giorno dell’addio
La notizia della morte di Robertson è arrivata con le parole composte del Nottingham Forest: “Siamo devastati nell’annunciare la scomparsa della nostra leggenda e caro amico, John Robertson”. Poche righe per riassumere il senso di un’intera epoca: “Un vero grande del club, due volte campione d’Europa, talento ineguagliabile, umiltà e devozione che non saranno mai dimenticate”. Anche la famiglia ha diffuso un messaggio pieno di delicatezza e dolore: “John è morto serenamente la mattina di Natale, con la moglie e la famiglia al suo fianco, dopo una lunga malattia”. Parole che hanno acceso una scia di tributi dall’Inghilterra alla Scozia, fino agli ambienti che lo hanno visto poi lavorare come tecnico.
Oltre le cifre: perché “Robbo” era diverso
Nel racconto comune del calcio, il talento si misura spesso in scatti, dribbling e gol. Robertson era altro. Aveva un baricentro basso, una conduzione di palla “a cucchiaio”, e un repertorio essenziale: finta di corpo, mezza suola, sguardo al compagno. La sua grandezza stava nella scelta giusta, quasi sempre. Brian Clough lo definì il “Picasso del nostro gioco”: non un virtuoso rumoroso, ma un artista del dettaglio, capace di cambiare la partita con un tocco senza mai alzare la voce. Le testimonianze di ex compagni, allenatori e giornalisti in queste ore lo riconsegnano come il più grande calciatore della storia del Forest, l’uomo che rendeva semplice l’impossibile.
Le origini e la svolta Clough–Taylor
Nato a Viewpark (Lanarkshire) il 20 gennaio 1953, John Neilson Robertson arriva giovanissimo al Nottingham Forest nel 1970. I primi anni non promettono una carriera da copertina: disciplina ballerina, forma fisica altalenante. Poi l’incontro che cambia tutto: Peter Taylor, vice di Clough, lo guarda, ci parla, scommette su di lui. Lo trasforma in un esterno mancino totale, più cervello che sprint, più lucidità che strappo. Da lì parte la meticolosa costruzione della squadra che in tre stagioni scala dall’anonimato alla vetta d’Europa.
La stagione perfetta: il Forest che sorprese il mondo
Il Forest di Clough e Taylor non è un capitolo qualunque della storia del calcio inglese. Nel 1977-78 vince il campionato di First Division subito dopo la promozione dalla Second Division, impresa rarissima. Nello stesso anno alza anche la League Cup, battendo il Liverpool nella ripetizione della finale: sempre lui, Robertson, dal dischetto decide l’1-0 a Old Trafford. Quella squadra gioca un calcio fatto di pressing intelligente, possesso misurato e transizioni di qualità; e sulla sinistra c’è il metronomo che non sbaglia quasi mai direzione.
Monaco 1979: l’assist che ribaltò la geografia d’Europa
La finale di Monaco contro il Malmö è tatticamente una partita chiusa, che richiede pazienza. Robertson la incide allo scadere del primo tempo: saltato l’uomo, cross teso, Trevor Francis anticipa tutti. Non è solo un gol: è la porta d’ingresso del Forest nel pantheon europeo, la conferma che quella creatura ha un orologio interno che non si inceppa. L’assist diventa, col tempo, una didascalia: basta riguardarlo per capire la differenza tra chi crossa e chi serve una soluzione.
Madrid 1980: il sinistro che fermò l’Amburgo
Un anno dopo, al Bernabéu, la partita è diversa ma il copione ha lo stesso finale. Pressione tedesca, linee strette, e poi la finestra che si apre sul versante sinistro: ricezione aperta, spostamento del pallone, tiro radente. Rudi Kargus è battuto. Ancora 1-0, ancora Coppa dei Campioni. È il colpo più famoso della carriera di Robertson, la firma d’autore che certifica il bis europeo del Forest.
La Scozia, Wembley e la freddezza dal dischetto
Con la Scozia, Robertson totalizza 28 presenze e 8 gol, prendendo parte a due Coppe del Mondo: Argentina 1978 e Spagna 1982. Il suo fotogramma più noto in nazionale è a Wembley, 23 maggio 1981: rigore freddissimo, Inghilterra–Scozia 0-1 nel British Home Championship. Un dettaglio di stile coerente con il personaggio: niente scenografie, solo l’essenziale.
Il ritorno a casa e la transizione alla panchina
Dopo la lunga prima vita al Forest (1970–1983), Robertson passa al Derby County e poi rientra al City Ground per un’ultima stagione. Archiviato il campo, diventa l’alter ego perfetto di un altro grande architetto del gioco, Martin O’Neill: insieme costruiscono cicli vincenti e riconoscibili tra Wycombe, Norwich, Leicester, Celtic e Aston Villa, con l’esperienza al Celtic — inizio anni 2000 — che riporta i biancoverdi a una dimensione europea. Non era l’assistente che urla: era quello che, con due parole, ridisegna un corridoio sulla lavagna.
Le parole e i tributi
La frase di Brian Clough è tornata ovunque: “Il Picasso del nostro gioco”. Dalle redazioni inglesi ai social dei club sono arrivati messaggi che raccontano non solo il campione ma la persona: “gentile”, “leale”, “umile”. Il Nottingham Forest lo ha definito “il più grande” nella propria storia moderna; la Scozia ha ricordato “il doppio campione d’Europa” con 28 caps. In Scozia, il Celtic ha reso omaggio al tecnico che al fianco di O’Neill ha contribuito a una delle stagioni più ricche del club del nuovo millennio.