L'analisi
L’Europa deve tornare a costruire
Non possiamo più permetterci visioni nazionali o approcci attendisti. La questione trascende il commercio: riguarda la sopravvivenza del nostro modello sociale e produttivo
Nell’articolo pubblicato il 21 maggio su questo giornale (“Va rivisto il modo di fare innovazione”), ho raccontato la fine di quell’equilibrio in cui l’Occidente progetta e la Cina produce, spiegando come con Pechino ora abbia iniziato ad internalizzare valore e brevetti. Vorrei ancora tornare sull’argomento, perché la vera domanda che mi ero posto è: siamo pronti a rientrare nel gioco con strumenti adeguati, oppure continueremo a difendere un modello che non produce più né benessere né autonomia?
La domanda si ricollega al recente rapporto sul futuro della competitività europea redatto da Mario Draghi per la Commissione UE, il quale offre una risposta netta. E non si limita a proporre politiche, ma formula anche un avvertimento: il declino della produttività in Europa non è un tema da convegni, è una questione esistenziale. Senza produttività, dice Draghi, perdiamo prosperità, coesione sociale e infine libertà. E il problema non sono le tecnologie: è l’inerzia dei sistemi.
Dal rapporto si chiede una risposta politica comune, strategica e coordinata. Non possiamo più permetterci visioni nazionali o approcci attendisti. La questione trascende il commercio: riguarda la sopravvivenza del nostro modello sociale e produttivo. L’esempio della fabbrica europea di batterie di Tesla lo illustra senza bisogno di retorica. Il costo di produzione per unità alla Gigafactory texana è di circa 2.200 dollari. In quella di Berlino, più di 11.000. Stessa azienda, stessi robot, stessa mission. A cambiare è l’ambiente: tempi burocratici, costo dell’energia, rigidità operative. Se non correggiamo queste distorsioni sistemiche, la “sovranità tecnologica” rimarrà uno slogan. Il professore Giorgio Mario Grasso, direttore del Laboratorio NISC del Dipartimento di Scienze Cognitive dell’Università di Messina e docente di intelligenza artificiale, ha definito con precisione il nodo strategico: o la Cina aderisce agli standard internazionali di tutela brevettuale (incluso il cosiddetto Patto di Washington, che regola l’armonizzazione globale della proprietà intellettuale attraverso il sistema WIPO), oppure l’Occidente sarà costretto a difendersi chiudendo porzioni di mercato. La posta in gioco, insomma, non è il protezionismo: è la sopravvivenza stessa del nostro tessuto industriale.
Ma questa crisi produttiva ha un riflesso diretto anche sugli equilibri geopolitici. Kishore Mahbubani, ex ambasciatore di Singapore e già decano della Lee Kuan Yew School of Public Policy, nel suo saggio Has China Won? (PublicAffairs April, 2020) smonta l’idea che basti il “modello democratico” per assicurare centralità globale. Senza potere economico, la nostra narrativa rischia di diventare irrilevante. Non basta avere ragione: bisogna essere in grado di incidere. Parole che risuonano forti soprattutto in Europa, dove la frammentazione istituzionale e la lentezza decisionale rischiano di amplificare gli squilibri.
In questo scenario, appare tanto più miope la gestione frammentata degli investimenti del Pnrr, rallentata da ritardi amministrativi e da una visione troppo spesso locale e dispersiva. Il Piano rappresentava l’occasione concreta per iniziare a costruire quella missione industriale che Draghi oggi chiede all’Europa intera. Eppure, i continui rinvii, le modifiche in corsa, le difficoltà attuative segnalano un’incapacità strutturale di visione. Se non riusciamo a usare risorse già disponibili per progetti condivisi, è difficile immaginare un cambio di paradigma.
A conferma di questo immobilismo europeo, basti osservare l’evoluzione delle catene globali di fornitura. Secondo i dati ripresi recentemente da Statista, la quota di approvvigionamento da parte di buyer europei e americani dalla Cina è passata da oltre il 60% nel 2019 al 42% nel primo trimestre del 2025. In parallelo, il Sud-Est asiatico – guidato da Vietnam e Thailandia – ha guadagnato terreno, toccando il 26%, mentre Paesi terzi come India, Messico e Nord Africa sono saliti al 32%. La Cina non perde il controllo: lo riorganizza. Delocalizza la manifattura più semplice e conserva il valore, mentre noi in Europa osserviamo questa transizione senza una strategia di rientro industriale. In altre parole, il mondo si ristruttura. Ma non attorno a noi. Per questo il rapporto Draghi non parla solo di innovazione, ma della necessità di operare su scala europea: industriale, tecnologica, strategica. Significa superare le logiche nazionali a favore di un approccio coordinato e integrato, capace di attrarre capitali, concentrare risorse e generare impatto. Il nodo, quindi, non è tecnico: è culturale. E a pensarci bene, anche storico.
C’è stato un tempo, nel primo Novecento, in cui l’Europa era più avanti: produceva e immaginava, progettava e creava simboli. Con tutte le sue contraddizioni, fu un’epoca che rompeva l’immobilismo per proiettarsi in avanti. Non si tratta di recuperare i miti del passato, ma di ricordare che una cultura dell’innovazione è possibile solo se attraversa tutti i piani della vita collettiva: economico, estetico, civile. Siamo rimasti con le mani pulite e gli occhi stanchi. Se vogliamo tornare a essere protagonisti, dobbiamo dare ruvidità alle mani e riallenare lo sguardo. Perché se non produrremo il nostro potere, dovremo importarlo. E con esso, come sempre, anche le regole scritte da altri.COPYRIGHT LASICILIA.IT © RIPRODUZIONE RISERVATA