PALERMO – A depistare le indagini sulla strage di via D’Amelio furono uomini dello Stato. A dirlo, per la prima volta in un provvedimento giudiziario, è la corte d’assise di Caltanissetta, che ieri ha depositato le motivazioni della sentenza dell’ultimo processo sull’attentato al giudice Paolo Borsellino. Fu «uno dei più gravi depistaggi della storia giudiziaria italiana» scrivono i magistrati che, per la verità, in 1865 pagine indicano un solo colpevole certo: Arnaldo La Berbera, ex capo della Mobile di Palermo, alla guida del pool che indagò sulle stragi del ’92. Sarebbe stato lui a imbeccare piccoli pregiudicati, balordi come Vincenzo Scarantino, costruendo una falsa verità sugli autori dell’eccidio.
Ma che dietro a una costruzione processuale che ha retto vent’anni ed è costata l’ergastolo a sette innocenti ci fosse solo La Barbera, nel frattempo morto, non crede la Procura di Caltanissetta, autrice, anche grazie alle rivelazioni del pentito Gaspare Spatuzza, dell’inchiesta che ha riscritto la storia dell’attentato. I pm Gabriele Paci e Stefano Luciani hanno infatti chiesto il rinvio a giudizio di altri tre poliziotti: il funzionario Mario Bo e i poliziotti Michele Ribaudo e Fabrizio Mattei. Tutti e tre accusati di calunnia, tutti e tre, per i magistrati, coinvolti nel «progetto criminoso» che portò ad anni di menzogne. Bo e gli altri facevano parte del pool di La Barbera e avrebbero costretto Scarantino e altri due piccoli criminali condannati per calunnia a 10 anni, Francesco Andriotta e Calogero Pulci, a coinvolgere nella ricostruzione della fase esecutiva della strage persone innocenti. Per Vincenzo Scarantino, il più discusso dei falsi pentiti, protagonista di rocambolesche ritrattazioni nel corso di vent’anni di processi, i giudici dichiararono la prescrizione concedendo l’attenuante prevista per chi viene indotto a commettere il reato da altri. Ed è a questi «altri» che la corte si riferisce nelle motivazioni della sentenza.
A quegli investigatori mossi da «un proposito criminoso» che esercitarono «in modo distorto i loro poteri». Sarebbero stati loro a compiere «una serie di forzature, tradottesi anche in indebite suggestioni». Ma quali erano le finalità di uno dei più clamoroso depistaggi della storia giudiziaria del Paese? si chiedono i giudici. La corte tenta di avanzare delle ipotesi: come la copertura della presenza di fonti rimaste occulte, «che viene evidenziata – scrivono i magistrati – dalla trasmissione ai finti collaboratori di giustizia di informazioni estranee al loro patrimonio conoscitivo ed in seguito rivelatesi oggettivamente rispondenti alla realtà», e, sospetto ancor più inquietante, “l’occultamento della responsabilità di altri soggetti per la strage, nel quadro di una convergenza di interessi tra Cosa Nostra e altri centri di potere che percepivano come un pericolo l’opera del magistrato». La corte dedica, poi, parte della motivazione all’agenda rossa del giudice Paolo Borsellino, il diario che il il magistrato custodiva nella borsa, sparito dal luogo dell’attentato. La Barbera, secondo la corte, ebbe un «ruolo fondamentale nella costruzione delle false collaborazioni con la giustizia ed è stato altresì intensamente coinvolto nella sparizione dell’agenda rossa, come è evidenziato dalla sua reazione, connotata da una inaudita aggressività, nei confronti di Lucia Borsellino, impegnata in una coraggiosa opera di ricerca della verità sulla morte del padre».
Se nei confronti dell’ex capo del pool che indagava sulle stragi i giudici sono netti, meno severi sono i giudizi sui magistrati della Procura di Caltanissetta che, pur avendo gli strumenti per comprendere, si accontentarono della verità “confezionata» dagli investigatori. Sarebbe stato necessario «un atteggiamento di particolare cautela e rigore nella valutazione delle dichiarazioni dello Scarantino», scrive la corte. Che però nella lunga ricostruzione dei fatti tira in ballo il nome di un solo pm, quello di Giovanni Tinebra, ex capo della Procura. Anche lui, come La Barbera, nel frattempo morto.