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Palermo, la questione morale e la questione del pane

Lo scenario alternativo. Il sillogismo sbagliato: più che la mafiosità per “infusione” il pericolo è sui condizionamenti reali. E se il Reddito spostasse più voti di 10 Cuffaro e di 100 Dell’Utri? La festa a «papà Conte» e il «no» che imbarazza Lega e FdI  

Di Redazione |

Francesco è dilaniato da un profondo dissidio interiore. Trent’anni da compiere, ufficialmente in cerca d’occupazione (ma «ogni tanto aiuto mio padre che monta parabole in nero»), è stato sorteggiato fra gli scrutatori ai seggi di Palermo. «Sono più di duecento euro, per un paio di giorni, niente male», ammette al bancone di un bar in zona Favorita. Poi, all’uscita, mentre s’accende una sigaretta elettronica, guarda verso il Barbera. «Ma io, domenica sera, devo essere lì. C’è la finale del Palermo. Tanto ho il reddito di cittadinanza, Conte è venuto qui a dirci che non ce lo fa togliere». E quindi il suo programma, nella giornata più importante della storia recente (politica e sportiva) della città, è il seguente: di mattina mare a Mondello, rientro a casa, doccia e via dritto allo stadio. E il seggio? Non ci andrà, nemmeno da cittadino. «Che me ne fotte delle elezioni?», sibila.

Francesco non incarna Palermo. Ma si avvicina all’immaginario, magari in un’algebra al ribasso, del palermitano medio. Nel 2017 votò per Leoluca Orlando, «ma negli ultimi anni è stato una cosa inutile», e adesso – al netto dell’astensionismo da trance rosanero – è confuso. «Lagalla e Miceli mi sembrano gli stessi», afferma con un crasso margine d’approssimazione. Eppure, più che la questione morale (gli sponsor eccellenti condannati per mafia, l’arresto del candidato di Forza Italia), per Francesco conta «la questione del pane». E dunque la tentazione di “ringraziare” il M5S per quei «piccioli che a Palermo ti fanno campare bene». Eppure «io di questi grillini non ne conosco manco uno, non so manco come sono fatti in faccia». E se avessimo sbagliato nel fare i conti? Roberto Lagalla, candidato del centrodestra riunito e corazzato, un mese fa poteva anche decidere di andarsene in vacanza fino al 13 giugno, tanto erano schiaccianti i dati dei sondaggi che lo davano vincente al primo turno. Adesso il suo affanno si respira nell’aria. Ma non è dovuto al fatto che fra i sostenitori ci siano Marcello Dell’Utri e Totò Cuffaro, che sul 5% della sua Dc a Palermo ha fatto un fioretto («Se non lo raggiungo lascio la politica») che sembra credibile quanto il voto di castità di Rosario Crocetta. Certo, l’ex rettore non ha rinnegato con la necessaria forza gli sponsor, ma il punto è un altro. E riguarda la pigrizia intellettuale – dei politici interessati, dei custodi delle verità antimafiosa e anche dei giornalisti – che ha prodotto un sillogismo da salotto. Non si diventa candidati opachi per infusione ideologica di mafiosità.

Il problema, infatti, non è soltanto etico. Ma maledettamente pratico. Ce l’ha dimostrato, come quasi sempre succede, la magistratura nel blitz che ha ammanettato il candidato di Forza Italia, Pietro Polizzi. Mentre tutti guardavamo il dito (la diaspora su Cuffaro e Dell’Utri) all’ombra della luna continuava a consumarsi il vero condizionamento mafioso. La politica, però, non ha la forza né l’interesse ad andare oltre il casellario giudiziario. Nell’elenco dei circa duemila candidati, un “concorsone” fra consiglio comunale e circoscrizioni, quanti altri Polizzi ci saranno? Chi controlla il controllo del voto negli anonimi palazzoni di Borgo Nuovo o del Villaggio Santa Rosalia? A leggere qualche nome non proprio al di sopra di ogni sospetto – e soprattutto a sentire il racconto, purtroppo anonimo, di ciò che succede fra Caf e garage riconvertiti in comitati elettorali – il livello d’infiltrazione è forte quanto incontrollato. Ed è lo stesso che, non si sa in che percentuale, ha condizionato le vittorie e le sconfitte anche di cinque anni fa. E di dieci, quindici, a ritroso quasi all’infinito.

Quanto incide la questione morale nella rincorsa di Franco Miceli – all’inizio un perdente di successo, stile Fabrizio Micari alle Regionali, oggi un rivale che fiata sul collo del favorito ex assessore regionale – verso un ballottaggio che potrebbe cambiare la storia di quest’elezione e non solo? In un certo elettorato ha un suo peso. Ma non è quello delle periferie abbandonate e del dark side del centro storico. Piuttosto è quello dei salotti buoni della borghesia. All’inizio tentato dal «candidato moderato» del centrodestra e ancor’oggi disposto in parte a votarlo turandosi il naso sui compagni di viaggio. Ma Lagalla non è Orlando. Che oggi il centrosinistra prova a nascondere nell’armadio come se fosse un’Edwige Fenech in un film pecoreccio degli anni 70. «Ho la forza e l’autonomia di proporre un programma alternativo a decisioni del passato che non ho condiviso», è costretto a sussurrare Miceli, nel confronto all’americana organizzato da Repubblica, per scacciare i fantasmi che aleggiano fra le bare del cimitero dei Rotoli e nei libri contabili di Palazzo delle Aquile.

Ma il Sinnocollando aveva la capacità di parlare, modulando il suo registro politico, tanto in un carnaio allo Zen quanto in un aperitivo in terrazza con magistrati e professionisti. Lagalla non riesce a essere un Orlando (vecchio stile) di centrodestra. Ma ci prova, s’impegna. «Io non sono né il mago Silvan, né il mago Merlino. Ma non voglio diventare il mago Forest…», è l’estremo tentativo di battuta palermitan-popolare. L’ha pronunciata un paio di volte, sbucato fuori dal suo camper, nei cosiddetti quartieri a rischio. Non l’hanno capita. E lui, adesso, non la ripete più.

Ma neppure lo stesso Miceli (percepito come un Lagalla ma senza nemmeno l’erre moscia) riesce a comunicare con questo elettorato, Né la battagliera Rita Barbera, ex direttrice dell’Ucciardone, sostenuta da una civica e da Potere al Popolo e «in campo per i poveri», sembra toccare palla in questi accidentati campetti in terra battuta di periferia. Semmai eroderà qualche consenso nella sinistra più radical che aborre i cinquestelle. Magari qui gioca più in scioltezza Fabrizio Ferrandelli, in lizza per la terza volta (nelle precedenti l’ha sostenuto una volta il centrosinistra e un’altra il centrodestra), che si vanta di «conoscere tutti i quartieri di Palermo come le mie tasche». Il candidato di Azione – il più tonico e performante in campagna elettorale, accreditato di un certo voto disgiunto dalle liste di entrambi gli schieramenti – punta a un robusto risultato a doppia cifra, dopo il quale si vocifera che Carlo Calenda potrebbe lanciare una sua pesante pietra nello stagno del campo progressista in tilt per le Regionali. A proposito: il centrodestra aspetta lunedì 13 per regolare una lunga lista di rese dei conti, a partire dal derby fra FdI e Lega-Forza Italia. E anche parte del destino di Nello Musumeci sarà deciso delle urne di Palermo. Dove, tornando al focus del discorso, un’altra pancia dei palermitani potrebbe essere solleticata da Francesca Donato, eurodeputata ex leghista e No Vax convinta, sostenuta da un Antonio Ingroia senza più freni inibitori. O magari dall’eterno civico Ciro Lomonte, che stuzzica istinti diversi con l’appoggio di Italexit e Popolo della Famiglia.

E se invece prevalesse la gratitudine – la stessa che ci esterna Francesco prima di congedarsi a bordo del suo scooterone – per il Reddito? Magari l’elettorato più popolare (e più numeroso), più che alle lusinghe dei picciotti e ai pacchi di pasta che si vedono girare sempre meno, è sensibile allo strumento simbolo dei grillini. Del resto i numeri parlano chiaro: a Palermo quasi 185mila persone, fra disoccupati (assegno medio di 670 euro) e pensionati (262 euro), incassano il sussidio. «Chi ci dà il pane merita il voto», urlavano a «papà Conte» al mercato di Ballarò, davanti a un Miceli in modalità “pop”. Il che, in punta estrema di diritto, sarebbe una filosofica ipotesi di reato elettorale. Ma se il M5S, in via d’estinzione da Roma in su, si attesta sul 20% in tutti i sondaggi sulla Sicilia, ci sarà un motivo. E il centrosinistra prova a cavalcarlo, nella più grande città d’Italia al voto. L’hanno capito i leader della coalizione (Enrico Letta è venuto due volte nel giro di pochi giorni), lo fiuta nelle piazze chi non è distolto dalla puzzetta sotto il naso. E lo hanno capito pure i più veraci esponenti palermitani di Lega e FdI, costretti a rinnegare in fretta (e in gran segreto), presso il loro elettorato percettore di Rdc, le filippiche di Giorgia Meloni e Matteo Salvini che vogliono cancellare la «paghetta» ai «divanisti».

Un sussidio che, come dimostrano decine di operazioni delle forze dell’ordine, viene regolarmente percepito anche da mafiosi e affini. Soprattutto a Palermo. Dove magari il reddito di cittadinanza sposta più voti (puliti e sporchi) di dieci Cuffaro e di cento Dell’Utri. Ma di certo meno del numero di tifosi pronti alla festa per la promozione in serie B. «Che me ne fotte delle elezioni», è la confessione di Francesco. Che rende inutile ogni analisi su un voto dall’esito meno scontato di quanto appaia. Twitter: @MarioBarresiCOPYRIGHT LASICILIA.IT © RIPRODUZIONE RISERVATA

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