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L'enigma

Assoluzione Lombardo, e ora tutti (amici e nemici) si chiedono: “Cosa farà?”

Sulla candidatura a sindaco di Catania, il leader di Mpa frena. Ma dopo il verdetto sul ricorso inammissibile, per molti le cose potrebbero cambiare

Di Mario Barresi |

Una ventina di minuti a piedi. C’è poco più d’un chilometro e mezzo di distanza. Da piazza Cavour, dove si staglia il “Palazzaccio”, per arrivare fino al ghetto ebraico. È qui, mentre passeggia solitario verso Campo de’ Fiori, che Raffaele Lombardo riceve la telefonata che gli cambia la vita. O, forse, che gliela restituisce soltanto. In parte. E senza gli interessi maturati negli ultimi tredici anni.

Alle 16,40 lo smartphone dell’ex governatore squilla. Sul display il nome di Maria Licata, la penalista catanese che, con Vincenzo Maiello, lo difende nell’appello-bis. «Ricorso inammissibile». Due parole che chiudono – e stavolta in maniera definitiva – il processo per concorso esterno in associazione mafiosa e corruzione elettorale aggravata. Anche ieri, in ossequio al rito scaramantico osservato a ogni sentenza, l’imputato non è in aula al momento del verdetto. All’avvocata («impareggiabile per tenacia, intelligenza e serietà», l’ha definita), che lo informa esultante della fine dell’incubo, lui riserva appena due parole: «Grazie tante». E la camminata continua. Non più a zonzo, ma verso la Cassazione. Nel frattempo le tre telefonate che non vede l’ora di fare: alla moglie Rina e ai figli Giuseppe e Toti. L’unica oasi di commozione vera. Privatissima.

«E adesso che farà?», si chiedono tutti. Gli amici e, soprattutto, i nemici. Ma in un giorno come questo, anche se ti chiami Raffaele Lombardo, la politica può attendere. Magari, macinando chilometri per le vie di Roma, gli spunta in testa la photogallery di un passato seppellito. Con la cartolina colorata di piazza Monte Citorio, il 19 settembre 2006, quando il popolo dell’Mpa arrivò fino al cuore delle istituzioni nazionali per chiedere il Ponte di Messina, riprodotto in gomma e resina (ma sembrava un dirigibile…) dagli artigiani siciliani. Fu l’inizio del volo della palumma autonomista, il cui leader sarebbe diventato padrone assoluto dell’Isola. Un’atmosfera ben diversa da quella che si respirò sei anni dopo, il 7 e l’8 luglio 2012, in un altro luogo simbolo della politica capitolina, l’hotel Ergife, per il terzo e ultimo congresso nazionale del movimento. Scorrevano già i titoli di coda: il governatore, azzannato dall’inchiesta, si sarebbe dimesso all’Ars poco dopo. E quello dell’albergone sul lungotevere sembrò quasi un accanimento terapeutico, se non un funerale in vita.

Lombardo in serata si gusta l’arietta frizzante di una città che in fondo non ha mai amato. Fra i pochissimi che lo accompagnano, nel giorno della verità, c’è Fabio Mancuso. «Adesso, l’unica certezza è che la Sicilia è stata governata da un uomo integerrimo, rispettoso della legalità e inflessibile contro la mafia e la malavita organizzata», sentenzia il sindaco autonomista di Adrano, poco prima di una (parca) cena in una trattoria del centro. Senza cannoli, ci mancherebbe.

E oggi Lombardo torna a Catania. Dove i suoi lo vorrebbero candidato sindaco. «È l’unico che può mettere d’accordo tutti, risolvendo lo scontro fra Lega e Fratelli d’Italia», è la tesi di chi lo invoca. Ma lui, pur avendo un cervello raffinato e per certi versi contorto (Gianfranco Miccichè lo chiama «Psyco»; ma con affetto, s’intende), stavolta fa una riflessione molto lineare: «Per ora non tocca a me». Che, tradotto dall’astruso “lombardese”, corrisponde alla linea esplicitata da Mancuso: «Raffaele è una risorsa di tutta la coalizione. Lui, ovviamente, non si autocandiderà, né lo farà l’Mpa. Ma, se dal tavolo del centrodestra, dal quale non vogliamo essere esclusi, emergesse la necessità e la richiesta di un nome autorevole, lui non si tirerebbe indietro. Se lo facesse? Ci penseremmo noi a convincerlo…». Ci riusciranno davvero?

Lombardo verso Palazzo degli Elefanti, magari spinto dai golden boy meloniani, Manlio Messina (uno dei primi, ieri pomeriggio, a congratularsi) e Gaetano Galvagno (già giovane promessa dell’Mpa), per arginare l’ascesa di altri quarantenni rampanti come Ruggero Razza e Valeria Sudano? Oppure il leader autonomista che, dopo aver mollato Matteo Salvini sull’altare delle Politiche, firma un patto federativo (già sfumato nel 2019) con Giorgia Meloni per rafforzala e candidarsi in prima persona alle Europee con FdI? O addirittura un armistizio con l’odiato Luca Sammartino (i due non si parlano da agosto: il giovane nemico lo accusa del «tradimento» dei No-Nello ai danni di Raffaele Stancanelli; Lombardo pensa che sia stato «il neofita leghista sempre al penultimo approdo» a convincere Salvini a negargli la candidatura blindata al Senato) in cambio del collegio etneo per Montecitorio di nuovo in palio se Sudano diventasse sindaca?

Con Lombardo (che anche a Totò Cuffaro ha confessato: «Faccio come te, non mi ricandiderò mai più») è possibile tutto. E il contrario di tutto. Qualcuno, fra i “falchi” del movimento con la colomba nel simbolo, ricorda un aneddoto dell’ultima campagna elettorale. Il leader comizia in un quartiere popolare di Catania, a sostegno del nipote Giuseppe Lombardo (poi eletto all’Ars a suon di voti), davanti a 800 persone. A un certo punto spunta la richiesta di candidarsi a sindaco. «Vi dirò no anche se me lo chiedete dieci volte», risponde Lombardo. E si alza un urlo: «Allora glielo chiediamo undici volte…». Può darsi che funzioni. Anche perché, ricordano i lombardiani ringalluzziti dalla totale riabilitazione del capo, «adesso tutto è cambiato» e «noi, con Raffaele, vogliamo riprenderci i tredici anni che ci hanno rubato».Twitter: @MarioBarresiCOPYRIGHT LASICILIA.IT © RIPRODUZIONE RISERVATA


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