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IL RETROSCENA

Forza Italia, così Schifani si è preso il partito in Sicilia: ecco perché il Cav ha scelto di buttare Miccichè giù dalla torre

Dalla vecchia “fatwa” di Dell’Utri agli inciampi di Ronzulli, ma decisivo il «dentro o fuori» del governatore. Con una sponda di FdI?

Di Mario Barresi |

La domanda, ora, è una sola: perché Silvio Berlusconi, che per quasi un mese ha nicchiato sul caso Sicilia (nessuna risposta ufficiale alla lettera dei 12 deputati regionali che gli chiedevano di rottamare Gianfranco Miccichè con Marcello Caruso, commissario «di sintesi ed equilibrio»), sabato ha accelerato all’improvviso, chiudendo con un laconico tweet la telenovela sulla leadership di Forza Italia nell’Isola? Quella di Caruso, segretario particolare e uomo-ombra di Renato Schifani, è una precisa scelta di campo. Non indolore per il Cav, visto il forte legame personale col finora insostituibile Miccichè.

Le risposte, in assenza di ricostruzioni ufficiali, sono molteplici.

La fatwa

C’è addirittura chi rimembra una fatwa, pronunciata diversi mesi fa, davanti a pochi intimi, da Marcello Dell’Utri contro l’ex giovane promessa, reclutata prima in Publitalia e poi nel partito. «Se continua così Gianfranco rischia di farsi male…», avrebbe preconizzato l’ex senatore condannato per mafia, nella fase di maggiore attrito col delfino. Dell’Utri indicò i suoi cavalli vincenti per Comune di Palermo e Regione: Roberto Lagalla e, appunto, Schifani. Ma Miccichè aveva ben altre idee. Sappiamo com’è finita.

Il peso di Licia

L’altra chiave di lettura, legata a dinamiche nazionali di potere forzista, riguarda il peso di Licia Ronzulli. La capogruppo al Senato avrebbe avuto, negli ultimi tempi, qualche inciampo nel rapporto con Arcore. Il più evidente – e molto lumbàrd – è l’indicazione, nella nuova squadra del governatore Attilio Fontana, di un ronzulliano doc (Ruggero Invernizzi), fuorisacco rispetto alla lista concordata col Cav. Fino a far traballare il ruolo di sacerdotessa azzurra? Magari no, ma un effetto collaterale (oltre al mancato invito della furente Ronzulli al cinquantesimo compleanno di Matteo Salvini, su richiesta, dice Dagospia, di Marta Fascina, quasi-moglie del Cav) può essere stato un indebolimento, seppur momentaneo, della principale garante di Miccichè al vertice del partito.

L’ansia

Ma c’è una terza narrazione, sull’asse Arcore-Roma-Palermo, che sembra ancor più fondata. Sabato, nel colloquio mattutino con il suo (adesso ex) viceré siciliano, Berlusconi avrebbe tradito una certa «ansia». Che va ben oltre l’imbarazzo, umano prima ancora che politico, per l’imminente “rottamazione”.

Gianfranco, questo casino non può più continuare: non lo reggo più», sarebbe stata la frase-clou del colloquio. Dopo la quale il coordinatore regionale ha subito firmato le dimissioni. «Ma non lascerò mai il partito», il giuramento d’onore del leader appena defenestrato, che di sera avrebbe ricevuto la solidarietà di molti suoi omologhi, alcuni «basiti», nella chat dei coordinatori regionali.

Il “casino”

Eppure il «casino» evocato dal Cav, che lo stesso Miccichè chiama invece «difficile e sempre più ingarbugliata situazione siciliana», non può essere limitato soltanto alla pesante contesa contro chi chiede da tempo la sua cacciata. Se fosse così, infatti, Berlusconi non avrebbe aspettato settimane per dare seguito all’istanza firmata da tutto il gruppo forzista all’Ars. L’avrebbe fatto prima. C’è qualcosa in più – nel non detto e nel non raccontato – che forse porta su altri terreni.

Il non detto

Il primo è siciliano, ma porta a Roma. E riguarda la prospettiva delle imminenti scelte per le elezioni amministrative: con Miccichè ancora in sella e quindi detentore del simbolo, l’unica alternativa per i Renato-boys sarebbe stata lanciare delle liste fai-da-te. Un remake del film comico, “Forza Italia 1” vs. “Forza Italia 2”, già andato in onda all’Ars. Ma stavolta con conseguenze più pesanti. Perché, per le regole forziste, se ci fossero state delle candidature di “Azzurri con Schifani” in contrasto con quelle ufficiali, i protagonisti si sarebbero messi fuori dal partito. Era proprio questa la mossa che Miccichè (confortato da Ronzulli e tenuto a bada da Giorgio Mulè) aspettava in un insolito silenzio.

La mossa

Ma stavolta Schifani ha giocato d’anticipo. E, dopo aver ammesso ai suoi “discepoli”, nel vertice di mercoledì scorso, che «il rapporto fra il presidente Berlusconi e Gianfranco resta sempre forte: non lo sottovalutiamo», poco dopo fa la mossa vincente sulla scacchiera. Ottenendo, con la testa di Miccichè, il ruolo di padrone (qualche amico dice «di imperatore») del partito in Sicilia. Con un «o siamo dentro o andiamo fuori» rispettosamente rivolto al Cav a inizio weekend. Una messa in mora, col dovuto ossequio, al leader. Adombrando l’inevitabile scenario della fuga di massa. Altrove, magari in un “partito del governatore” con anima moderata e dialogo privilegiato con FdI.

La torre

Così, dopo aver sottovalutato il dossier siciliano, Berlusconi finisce in uno sproporzionato gioco della torre: chi buttare giù fra Miccichè (e i pochi fedelissimi in disarmo) e l’intero gruppo dirigente siciliano, guidato dal presidente della Regione, con annesso pacchetto di voti, alla vigilia delle Amministrative e a un anno dalle Europee?

La scelta

A quel punto la scelta, pur dolorosa, è stata obbligata. Magari stimolata pure – e qui siamo sull’ultimo terreno – da un’ipotizzabile influenza esterna: quella di Fratelli d’Italia. Fra gli alleati, tralasciando l’idiosincrasia epidermica di Giorgia Meloni per Miccichè, c’è un potente fronte ostile, capeggiato da Ignazio La Russa. Sarà stata anche qualche “dolce parolina” sussurrata dal presidente del Senato, inventore della candidatura Schifani, a sbloccare l’impasse sicula presso Arcore? Dove avrebbe magari trovato orecchie sensibili. A pochi giorni dalla sentenza del Ruby-Ter – non foss’altro che per una questione puramente scaramantica – meglio non creare ulteriori tensioni col partito della premier. E del ministro della Giustizia, Carlo Nordio, portatore sano di garantismo.

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