Forza Italia: la “requisitoria” di Mulè, Schifani silente ma Tajani lo blinda
In direzione nazionale il leader nazionale snobba il caso Sicilia. «Lì siamo forti». Presto la segreteria regionale
La parte iniziale del copione corrisponde esattamente alla sceneggiatura già scritta. E ampiamente annunciata. Ieri pomeriggio, nel corso della direzione nazionale di Forza Italia, viene sollevato il “caso Sicilia”. Ed è Giorgio Mulè ad aprire i cahiers de doléances sul partito siciliano sostenendo di rappresentare «una posizione condivisa da tanti amici e colleghi». Ad ascoltarlo, nel ristretto parlamentino azzurro, ci sono il governatore Renato Schifani e Marcello Caruso, segretario regionale del partito. Lo spunto utilizzato dal vicepresidente della Camera è un passaggio dell’introduzione in cui Antonio Tajani ha appena auspicato che «i coordinatori regionali del partito devono essere la cinghia di trasmissione fra le istanze dei territori e la nostra deputazione». Mulè coglie l’alzata e schiaccia: «Sì, dovrebbe essere così ed è così quasi dappertutto. Tranne in Sicilia…».
Il J'accuse di Mulè
L’ex direttore di Panorama srotola sul tavolo nazionale una sorta di rassegna stampa sui mal di pancia al di sotto dello Stretto. C’è anche l’intervista della sottosegretaria messinese Maltilde Siracusano al nostro giornale, utilizzata per dimostrare che «si fanno delle liste di proscrizione: rappresentanti di punta di Forza Italia non vengono nemmeno invitati agli eventi perché osano esprimere posizioni critiche». Da qui al ragionamento successivo, il cuore dell’attacco di Mulè alla leadership siciliana del partito, il passo è breve. Il “ribelle” ricorda a Tajani che la segreteria guidata da Caruso «in due anni non si è mai riunita». Ed è arrivato il momento di farlo. «Per parlarsi, per confrontarsi, per dirci con schiettezza anche quello che non va». Senza «nascondere la polvere sotto il tappeto».
Tajani stizzito ma non replica
Il leader nazionale sembra stizzito. Ma non interrompe il lungo sfogo del deputato eletto nel plurinominale della Sicilia occidentale: un passaggio pesante («con toni anche volgari» secondo qualcuno dei presenti) sulla sanità regionale infestata dagli scandali, a partire da quello dei ritardi nei referti istologici dell’Asp di Trapani. «Chi ha sbagliato deve pagare: non possiamo usare due pesi e due misure se ci sono delle responsabilità anche dentro il nostro partito». Ed è l’esplicita dichiarazione di guerra non solo all’ex assessora Giovanni Volo e al super dirigente Salvatore Iacolino, ma anche a Daniela Faraoni, voluta da Schifani alla guida della Salute. Una tecnica d’area, proprio come Alessandro Dagnino (Economia), altro assessore con l’imprimatur presidenziale. Sulle lamentele siciliane per l’accentramento delle scelte un accenno sfumato, soltanto un riferimento (che Tajani citerà nelle conclusioni davanti alla direzione) alla «necessità di rispondere alle istanze politiche dei nostri sul territorio».
L'asso nella manica
Mulè tira fuori anche l’asso nella manica. Lanciando il tema di un’insolita «questione morale» dentro un partito da sempre ipergantista. La provocazione è legata all’ingresso di un consigliere comunale di Mazara, Giorgio Randazzo, accusato di ricettazione nel procedimento penale a carico del maresciallo dei carabinieri Luigi Pirollo, accusato di aver sottratto abusivamente dal server dell’Arma file segreti delle indagini sulla latitanza di Matteo Messina Denaro. Randazzo è stato accolto in Forza Italia grazie alla sponda dell’ex assessore regionale Toni Scilla, col placet della segreteria regionale. «Può succedere questo nel partito di Rita Dalla Chiesa e Caterina Chinnici?», si chiede Mulè Mentre vomita questo (e altro ancora) Schifani è impassibile. Non replica. E nemmeno Caruso prende la parola. Zitti. Ma in fondo sereni. Come se sapessero già quello che sarebbe accaduto dopo. Cioè: niente.
Tajani lascia correre
Tajani lascia scorrere lo sfogo. Non risponde al capo dei ribelli siciliani (negli ultimi tempi molto in sintonia con l’eurodeputato Marco Falcone e altri deputati dell’Ars), sembra proprio snobbare la rivolta senza sentire il bisogno di sedarla. Nessun riferimento nemmeno nel discorso di chiusura se non quello sulla strategia di «coinvolgere le regioni» in una campagna nazionale sulla sanità in programma entro la fine del 2025. Anzi, quando il leader, commentando i risultati «comunque positivi per noi» alle Amministrative, afferma la necessità di «rafforzarci nelle città» cita Palermo come una di quelle in cui «siamo molto forti». Ed è proprio questo, al netto della linea del “quieto vivere” adottata ovunque, la vera ragione per cui Tajani non apre, né ha intenzione di aprire, il “caso Sicilia”. Per lui l’Isola resta «un modello positivo», fondato su quel 25% che altrove resta una chimera. La “requisitoria” di Mulè, dunque, è destinata a restare l’esternazione di un malessere finora celato. Caruso convocherà la segreteria regionale. E sarà un altro potenziale Speaker’s corner. Ma lo scettro di viceré siciliano di Forza Italia resta saldo nelle mani di Schifani. Che dovrà sterilizzare i frondisti, quelli evidenti e quelli nascosti. Tajani, però, è sempre lì. Zitto e immobile. A guardargli le spalle.