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Meloni, Salvini e il “patto della braciola” siglato in Sicilia: ma sulla premiership non c’è accordo

La leader di FdI si esprime da presidente del Consiglio mentre quello della Lega non nasconde l'ambizione di voler essere lui a guidare il governo

Di Mario Barresi |

Si sente forte, fortissima. Non parla più soltanto da leader di un partito che «quattro anni fa un sondaggio, dello stesso istituto che oggi ci stima al 25 per cento, dava al 3,7». Giorgia Meloni, pur mettendo in guardia i suoi («Non mi piace questo clima troppo entusiasta, ancora c’è l’ultima battaglia da vincere»), infiamma i 2.500 patrioti, o presunti tali, delle Ciminiere di Catania nei panni di aspirante capa del governo. Certo, l’aplomb thatcheriano con cui spiega, soffermandosi a lungo, le ricette economiche di Fratelli d’Italia si liquefà quando sul palco torna ad aleggiare la sindrome da “brutta anatroccola”. Prima la sfuriata contro il mondo della cultura: «Oggi il mood degli artisti è “mi alzo e insulto Giorgia Meloni”. Secondo voi, è possibile che non ne esista uno che la pensi in maniera diversa? Non è che lo fanno perché pensano che questa sinistra democratica poi non li fa più lavorare?».

Poi l’affondo: «La sinistra è nervosa perché a voi hanno detto in questi anni che aveva un’egemonia culturale, ma non era vero: ha un’egemonia di potere. Per questo si contorcono e hanno la stampa che si deve inventare le fregnacce dalla mattina alla sera». E finisce, urlando, in un tripudio di applausi: «La sinistra ha paura di uno Stato in cui ti misuri indipendentemente dalle tessere che hai, sei hai quella del Pd o sei un lecchino, ma perché sei bravo. Io sogno una nazione dove per essere un buon docente non devi essere della Cgil, per fare bene il magistrato non devi essere per forza iscritto all’Anm. Sogno una nazione in cui le persone  possano dire come la pensano e non perdere il posto di lavoro. Io voglio un’Italia normale».

Il viso si fa paonazzo, le vene del collo s’ingrossano. Lei se n’accorge e prova a ridarsi un tono: «La Garbatella che è in me a volte prende il sopravvento. Scusatemi, ma è più forte di me…». Segue risata liberatoria. 

Alle Ciminiere Meloni arriva in auto con quelli che affettuosamente chiama «il mio velino biondo e il mio velino  moro», al secolo Manlio Messina e Salvo Pogliese, quest’ultimo accolto con grande calore nell’anfiteatro all’aperto. Sul palco trova Nello Musumeci e Renato Schifani. Accanto a loro Adolfo Urso e Ignazio La Russa, nelle immediate vicinanze Carolina Varchi e il redivivo Giuseppe Milazzo, che ha archiviato le tentazioni leghiste. In platea e nel retropalco tanti altri big, a partire da Ruggero Razza con la moglie candidata all’Ars, Elena Pagana, e il figlioletto al seguito.

Anche davanti a loro  Meloni si esprime da premier in pectore. Dopo aver siglato la pace – o meglio: la tregua – con Matteo Salvini, siglata a pranzo al circolo del tennis di Messina al culmine di una mattinata in cui, dopo che i rispettivi staff avevano la consegna di evitare gli “incroci pericolosi”, i due leader decidono di incontrarsi in riva allo Stretto. E così nasce il “patto della braciola”: i due a tavola (fra involtini alla messinese, sia di maiale sia di pesce spada; lui con un bicchiere di Etna, lei con uno di Grillo) sanciscono un accordo di non belligeranza nelle ultime settimane verso le urne. Per una rassicurante immagine di compattezza della coalizione, con l’ipotesi di una chiusura di campagna elettorale sullo stesso palco. Magari a Roma, con Silvio Berlusconi presente. «Sarebbe un bel segnale, proviamoci davvero», è l’impegno reciproco preso a Messina.

Con  La Russa pronto a suggellare l’intesa col calice in alto in una foto postata sui social. «Brindisi di amicizia a Messina», l’emblematica didascalia d’autore. Poi il senatore, arrivato a Catania, sparge ottimismo: «Tra loro c'è un rapporto cordiale e sincero. Poi è ovvio che le rivalità ci sono, ma è la normale competizione che c'è tra leader». Ma con un’osservazione pungente: «Salvini ricambia la gratitudine che ha avuto Meloni cinque  anni fa, quando propose per prima a Mattarella il nome di Salvini premier, ma allora il centrodestra non aveva la maggioranza? Quindi è ragionevole che ora se i numeri saranno dalla nostra, ci sarà un’indicazione in linea e quindi diversa».

I social sono il terreno ideale per ostentare questa unità utilitaristica. «Lasciamo alla sinistra divisioni, rabbia e polemiche. Uniti si vince», scrive il Capitano postando la foto dei due leader in riva al mare. Meloni ritwitta lo scatto e aggiunge: «La migliore risposta alle invenzioni della sinistra su presunte divisioni».

A tavola, nonostante la folta rappresentanza dei rispettivi colonnelli siciliani, non si beve l’amaro col retrogusto dello scontro sulla scelta del candidato governatore. Solo politica nazionale.  Ma il discorso sulla leadership della coalizione, data per buona la regola del «chi prende un voto in più governa» è soltanto rimandato. In gioco, non solo il timone del governo, se il centrodestra vincerà le elezioni, ma anche la rotta da dare all’esecutivo specie su sicurezza, immigrazione, tasse ed energia. 

«Per me sarebbe un onore presiedere il primo Consiglio dei ministri», si lascerà sfuggire il Capitano nelle successive tappe nel Ragusano. Mentre l’ex ministra della Gioventù glisserà sul tema, rivendicando però il vento in poppa. «Oggi c'è un sondaggio che ci dà al 25 per cento e per questo devo ringraziare tutti, perché questo partito, partendo dall’un per cento, non l’ho fatto io, ma grazie alla nostra classe dirigente e quegli italiani che ascoltano quello che diciamo», scandisce sotto il Vulcano. Parlando rivolta anche un altro establishment: quello che l’ascolta con curiosità e l’aspetta con voracità. Quello che si sta formando – in platea e nel retropalco decine di imprenditori, vertici sanitari, dirigenti regionali, più un bel po’ di trasformisti siciliani – scommettendo sulla sua vittoria.

«Per tornare a produrre ricchezza in Italia bisogna avere un piano industriale e favorire il lavoro: la nostra proposta principale è una tassazione per le imprese che dica: “più assumi, meno paghi”, più dipendenti hai in rapporto al fatturato meno tasse devi allo Stato», dice  al mondo delle imprese.

E ancora, da oppositrice del governo Draghi, l’apertura sulla crisi energetica: «Abbiamo proposto di abbattere gli oneri sull'aumento delle bollette rispetto all’anno precedente, ma siamo disposti a parlare di qualsiasi soluzione che possa risolvere questo problema, insieme alle altre forze politiche».  Poi, nell’Isola dei sussidiati del cappotto grillino nel 2018, rassicura anche i percettori del reddito di cittadinanza: «Non abbiate paura, non voglio lasciare nessuno indietro. Ma non si può mettere sullo stesso piano chi può lavorare e chi no». Infine, dice una cosa di destra: «Quella del blocco navale è l’unica proposta seria che si possa fare: una missione europea in accordo con le autorità libiche, quindi non un atto di guerra, per aprire in Africa gli hotspot, valutare solo chi ha diritto a essere rifugiato».

Il finale è il classico selfie di massa dopo l’appello con pragmatismo democristiano: «Questa legge elettorale non mi piace, fare le liste è stato complicatissimo. Ma ha un pregio: votare è semplicissimo: basta fare una croce sul simbolo di Fratelli d’Italia. Magari loro dicono che quelli che votano per noi non sanno manco fare la croce. Ma noi a quelli (della sinistra, ndr) dimostreremo il 25 settembre che queste croci le sappiamo fare molto bene. Ci mettiamo una croce, stavolta…».

Twitter: @MarioBarresi

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