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De Mita, l’uomo dei “ragionamendi” e delle partite a tressette. Mattarella: “Mi strappò all’università, un innovatore nel nome di Sturzo”

La politica si inchina all'ultimo presidente della Dc che cercava il dialogo con i comunisti

Di Redazione |

 La morte di Ciriaco De Mita, l’ultimo presidente del Consiglio Dc ancora in vita, ha destato nel mondo politico e istituzionale un sentimento di cordoglio e rispetto, anche in coloro che furono suoi avversari, ed ha suscitato riflessioni sull'oggi della politica.   Tra i primi a esprimere «cordoglio» è stato il Presidente del Consiglio Mario Draghi, che ne ha ricordato la molteplicità degli impegni: a livello di partito, in quello parlamentare e in quello di governo. Ma è stato soprattutto il presidente Sergio Mattarella, in un lungo comunicato non formale, a delineare il profilo di colui che da segretario della Dc lo strappò all’Università e lo portò in politica. L’impegno politico di De Mita è avvenuto «nel solco di quel cattolicesimo politico che trovava nel popolarismo sturziano le sue matrici più originali e che vedeva riproposto nel pensiero di Aldo Moro». Da questa radice nasceva la «visione della democrazia come processo inesauribile» che richiede «il rinnovamento e l’adeguamento delle nostre istituzioni».

Un rinnovamento preso di mira dalle Br che nell’aprile 1988 uccisero il suo consigliere Roberto Ruffilli, teorico dell’uninominale, che fu alla base della legge elettorale Mattarella del 1993. Il tentativo di innovare le istituzioni fu alla base del suo impegno nel 1992 come presidente della Bicamerale per le riforme costituzionali, naufragata sotto i colpi di Tangentopoli che travolse anche la Prima Repubblica. Pierluigi Castagnetti, ultimo segretario del Ppi, ha ricordato la drammaticità del fallimento del tentativo di riformare la Costituzione tra il 1992 e il 1994, che aprì la porta alle successive forme di populismo: in De Mita c'era «la convinzione che solo il popolarismo avrebbe potuto bloccare la deriva populista, la certezza che senza la rigenerazione di una passione popolare non si sarebbe riusciti a bloccare la deriva della democrazia». 

 Il De Mita «innovatore» è stato ricordato anche dall’altro "professore» portato in politica dall’ex segretario Dc, vale a dire Romano Prodi, che ha sottolineato anche la sua capacità di "dare spazio alle nuove generazioni, promuovendo quel ricambio di classe dirigente necessario». Una dimensione sottolineata da molti di quei cattolici della sinistra Dc oggi impegnati nelle file del Pd, come Enrico Letta, Dario Franceschini, oltre che dallo stesso Mattarella. 

 L’attenzione alla dimensione popolare della politica lo spinse a cercare il dialogo con l’altro grande partito di popolo, il Pci, per superare la «conventio ad excludendum» nei suoi riguardi. Di qui le parole di sincera stima verso De Mita da parte dei figli di quella storia, da Massimo D’Alema, a Piero Fassino, ultimo segretario Ds, a Roberto Speranza. Il dialogo con il Pci portava alla collisione con il Psi di Bettino Craxi, che aveva lanciato la «competion» a sinistra con il Pci. «Quello tra i due fu un conflitto politico aspro, frutto di visioni e mondi diversi, ma all’insegna della politica come terreno di confronto tra i migliori» ha ricordato Stefania Craxi.     Il presidente della Repubblica ha ricordato anche «la sua visione internazionale e, in modo particolare, l’attenzione che ebbe per ciò che la leadership di Gorbaciov stava producendo in Unione sovietica": quasi un memento all’attuale politica che si perde sui balneari mentre in gioco c'è la collocazione internazionale del Paese. Questa attenzione alla dimensione internazionale, a fianco della sua laicità, evidenziata ancora da Mattarella, rendono centrato il commento di Pierferdinando Casini che nella Dc era nella corrente avversa: «si è sempre definito, solo e semplicemente, un democratico cristiano, anche dopo la morte della Democrazia cristiana». 

Le partite a carte da vincere ad ogni costo e il rito dello struscio domenicale. E ancora, la rasatura da Tattalino, il barbiere con il culto del leader, e gli sfottò al cugino oppositore. Vista da Nusco, ora che Ciriaco De Mita, «il filosofo della Magna Grecia», come lo ribattezzò Gianni Agnelli, è morto, quanto è lontana la prospettiva dell’uomo di Stato avvezzo ai «ragionamenti politici» dispiegati in oltre sessanta anni di attività politica. Lontani i fari della Roma dei palazzi, a prevalere nella narrazione del lutto collettivo non sono i successi pubblici, quanto i ricordi e gli amarcord, tra cordoglio e riconoscenza per quel compaesano che ce l’ha fatta ma che non ha mai tagliato le radici con la sua terra. 

 Sono le 11 quando il feretro di Ciriaco De Mita fa ritorno in quella abitazione da cui era uscito circa un mese fa per seguire un protocollo riabilitativo in una clinica di Avellino finalizzato al recupero dall’infortunio domestico che gli aveva procurato la frattura del femore a febbraio. Chi gli è stato vicino fino all’ultimo parla di una fine per consunzione, come se il vecchio leone democristiano non avesse più voglia di lottare, arrivando finanche a rifiutare il cibo. Il suo farmacista di fiducia e compagno di mille battaglie sul tavolo da gioco, Luigi Cardillo, lo aveva capito già qualche settimana fa che qualcosa non andava per il verso giusto. «L'ultima partita a carte, la sua grande passione, ce la siamo fatta una ventina di giorni fa. Capii che qualcosa non andava perché lui, che avrebbe giocato all’infinito, a un certo mi disse che si sentiva stanco e chiese di finirla là. Poi l'ho sentito l’ultima volta giovedì scorso e me lo ripeté: sono stanco».

 Era burbero De Mita. E la puntualità era una delle sue fissazioni: «Era il primo ad arrivare in Comune. A volte riprendeva pure me – continua Vigilante – ma poi accompagnava il rimbrotto con la frase 'ti ricordo sempre che siamo amici». La passione per le carte è ricorrente in tutte le testimonianze: «Appena era libero giocavamo – ricorda Cardillo – Ad Avellino, a Nusco, ma anche a Roma. Si giocava a briscola, tressette, scopa. Facevamo notte. Non voleva mai perdere e si arrabbiava con i presenti se succedeva, diceva che portavano male».

Lo ricorda il cugino, Giovanni Marino, 72 anni, una vita a sinistra, prima con le frange più estreme, poi col Pci, Pds, e infine col Pd, e storico oppositore in Consiglio Comunale: «Mi dava della pecora rossa e io gli dicevo Ciriachì, come lo chiamavamo in famiglia, tu in fondo sei leninista. Anche nel mio Pci avresti fatto carriera. Ciao Ciriachì». 

Ciriaco De Mita, ha ricoperto ruoli assolutamente apicali nelle istituzioni italiane Presidente del Consiglio dall’aprile dell’88 a luglio dell’89, e segretario per sette anni ( dall’82 all’89) della Dc, il partito-Stato per quasi cinquant'anni pivot di qualsiasi coalizione di governo. Un personaggio dalla personalità complessa, ma soprattutto ricordato come l’uomo dei «ragionamendi», rigorosamente con la D irpina, e dei «penzieri». Un approccio che in molti consideravano fin troppo pedagogico, Gianni Agnelli lo definì  "l'intellettuale della Magna Grecia». 

 Durante una partita a «spizzico», il tressette a due, e nei lunedì pomeriggio passati a macinare vasche nel Transatlantico della Camera, De Mita esercitava con puntiglio questa sua verve pedagogica con compagni di partito, giornalisti e ministri . "Vieni qui che non hai capito un……ora ti spiego», esordiva sorridendo molto spesso davanti ai cronisti divertiti. 

 Più complicati i rapporti con il suo eterno rivale nella maggioranza, il potentissimo, allora, segretario del Psi Bettino Craxi che fece dire al suo fidatissimo delfino Claudio Martelli al congresso di partito che sancì la fine dell’esperienza demitiana a Palazzo Chigi: «il treno è arrivato al capolinea e devono scendere tutti, anche il macchinista». Con Craxi, come un altro suo compagno di partito, Giulio Andreotti, i rapporti non furono mai semplici e sicuramente meno pedagogici. Quell' Andreotti che era stato suo ministro degli esteri e che prese il suo posto alla guida del governo, il 23 luglio del 1989: «la strana coppia» fotografata dalle cronache giornalistiche di quei giorni, il primo uscente da palazzo Chigi, dopo le dimissioni annunciate in un assolato venerdì di maggio, l’altro entrante nella stanza dei bottoni dove si insediò per la sesta volta a scapito dell’allora segretario dc. Una svolta che aprì la strada al trittico di leader politici che gestì le sorti degli esecutivi pentapartitici per alcuni anni( Craxi- Andreotti- Forlani, tradotto giornalisticamente con l’acronimo del CAF).  

 «Ciriaco De Mita è stato uno degli ultimi grandi leader della Democrazia Cristiana. In anni difficili per il Paese e per il partito si fece promotore di un rinnovamento osteggiato da tanti. Un rinnovamento che ha portato alla nascita di una nuova classe dirigente che rifiutò e denunciò i legami con poteri del malaffare. Di lui ricordo la grande passione politica e la continuità di un impegno al servizio delle comunità. In questo momento di grande sofferenza esprimo la mia vicinanza alla famiglia». Lo afferma il sindaco di Palermo, Leoluca Orlando, ricordando Ciriaco De Mita.

«Con Ciriaco De Mita ci lascia un protagonista della Prima Repubblica che fino ad oggi ha attraversato le vicende italiane con indiscusso acume e grande signorilità. Alla famiglia tutta e ad Antonia che mi onora della sua amicizia le mie sentite condoglianze». Lo dichiara Ignazio La Russa, vicepresidente del Senato e senatore di Fratelli d’Italia.COPYRIGHT LASICILIA.IT © RIPRODUZIONE RISERVATA