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Gli attributi del “mite Renato”: dal primo “no” al predecessore al piano di difesa dal fattore G

Il neo presidente ha imposto a Musumeci la data della cerimonia d'insediamento e si è smarcato dai veleni forzisti. I consigli anti-Miccichè 

Di Mario Barresi |

Il “mite Renato”, al momento giusto, tira fuori gli attributi. Sempre con stile istituzionale, s’intende. Così, ad esempio, è stato sulla data del passaggio di consegne. Nello Musumeci avrebbe voluto farlo domani (e infatti un primo comunicato dell’ufficio stampa invitava i giornalisti per questa mattina), ma Renato Schifani aveva già un altro programma: presenziare, da presidente della Regione nel pieno dei suoi poteri, a un’altra cerimonia d’insediamento. Quella del nuovo procuratore di Palermo, Maurizio de Lucia, prevista per oggi alle 11 in tribunale. Il governatore uscente ha ribadito, con garbata fermezza, di preferire il sabato, anche per gli impegni da senatore a Roma. Ma il successore è stato irremovibile: comunicato stampa di rettifica e nuova data, ieri alle 18. Con un sottinteso che trapela da Palazzo d’Orléans: «Se Musumeci viene è meglio, ma se non viene il presidente s’insedia lo stesso senza passaggio di consegne».

Sì, il punto è questo. Il “mite Renato” ieri ha detto che non si farà «tirare la giacca». E il primo a sperimentarlo è stato proprio chi gli ha dato il consiglio. Musumeci fa buon viso a cattivo gioco. E ottiene, grazie allo staff della Presidenza, una cerimonia ovattata. Quasi blindata, nella parte ufficiale: sala Alessi chiusa al pubblico (al tavolo solo i due protagonisti, un giornalista a testata), con maxi-schermo su un altro piano per gli altri ospiti. Poi c’è lo Schifani-party, nella residenza presidenziale, con una settantina di persone.  Tutti attorno al neo-insediato: assessori uscenti che non mollano la presa, deputati eletti con autocertificazione di «competenza specifica» che gli alitano addosso, dirigenti in pressing per la riconferma, questuanti vari. Tutti ad adorare anche la  nuova first lady della Regione: la signora Franca, che ha già conquistato funzionari e messi. «Finalmente questo palazzo torna a sorridere», è la sintesi più efficace del nuovo clima. Al momento di alzare i calici, però,  Musumeci non c’è. S’è volatilizzato, dopo essere stato in disparte. «Senza Nello non stappo», scandisce Schifani. «Ma è ancora nel palazzo», rassicurano i suoi, giurando che «non sapeva del brindisi». A Marco Intravaia, in attesa della nuova vita da deputato di FdI all’Ars, l’ultima missione speciale da segretario particolare: riportare  l’ormai ex governatore in sala.  Tentativo vano, il brindisi si fa lo stesso. The show must go on.    

E continua anche la processione. Per tutti c’è ascolto. Sorrisi. Pure un selfie celebrativo, per chi lo chiede. «Dialogo», è la parola chiave dell’era del “mite Renato”. Che però ha ben chiaro il rischio di finire schiacciato fra due fronti opposti. Nel primo c’è  chi vorrebbe che  il suo governo fosse  una specie di “Musumeci-bis” senza pizzetto. E non a caso il predecessore tiene a precisare che la candidatura di Schifani «ha subito ricevuto la condivisione della leader del mio partito Giorgia Meloni, del presidente Ignazio La Russa e del sottoscritto». Insomma: se sei qui, al posto che dovrebbe essere mio, lo devi a noi. Schifani è consapevole di essere stato “scelto” da FdI. Che adesso, a Roma, fa l’asso pigliatutto. E non è un caso che, dopo le tensioni sul voto di La Russa, che in molti ritengono alimentato dai “falchi” Licia Ronzulli e Gianfranco Miccichè, il governatore abbia fatto arrivare alla futura premier segnali di «distinguo» – tramite Ignazio – dalle scelte del suo partito. In ogni caso, ragiona un’eminenza grigia della coalizione, «qualsiasi cosa succede a Roma in questo momento ha dirette refluenze sul governo Schifani: dagli equilibri fra i partiti alle scelte degli assessori».

E poi c’è il “fattore G”. Come Gianfranco. Ieri assente (strategico) all’insediamento, ma sempre immanente. Miccichè è l’alfiere dell’altro fronte dei tiratori di giacchetta, i quali vorrebbero una «forte discontinuità» rispetto al quinquennio musumeciano. Chi gli ha parlato, in questi giorni romani, assicura che il leader forzista, anziché fare il senatore, preferirebbe restare a Palermo. «C’è più bisogno di me lì, perché altrimenti con Renato finisce come con Musumeci. O anche peggio…», la rivelazione nei corridoi di Palazzo Madama. Ma il “mite Renato” ha calcolato il rischio di ritrovarsi la stessa scheggia impazzita (per di più commensale dialogante con Cateno De Luca), che ha logorato e affossato chi c’era prima di lui. Se si votasse oggi per la presidenza dell’Ars, i veleni romani  sarebbero l’alibi perfetto per un “famolo strano”. Ma se ne parlerà ai primi di novembre. Schifani è però tentato di accogliere  il consiglio di un saggio forzista di peso: «Fagli fare l’assessore alla Sanità, a Gianfranco, così lo metti in squadra come tuo sottoposto, lo controlli e lo costringi a fare il bravo». Magari succederà questo. Oppure no. Tanto il “mite Renato” sa cosa fare. Ascolta tutti. Da «parlamentarista convinto», dice. E poi decide per i fatti suoi. Così sarà per gli assessori e per i dirigenti. Nonostante quella giacca rischi già di strapparsi per quanto gliela stanno tirando. Da una parte. E dall’altra. Twitter: @MarioBarresi   COPYRIGHT LASICILIA.IT © RIPRODUZIONE RISERVATA


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