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L'intervista

Raffaele Lombardo: «Io assolto dopo 12 anni? Chissà come sarebbe stata la Sicilia se…»

L'ex governatore promette: «Non faccio più politica». Ma nei tavoli che contano c'è ancora: «E su Musumeci ho la mia idea»

Di Mario Barresi |

Ma allora, Raffaele Lombardo, non le mangiucchia più le famigerate Marlboro col filtro estirpato? «No». Sorseggia del the caldo e sgranocchia una mela che gli arriva già sbucciata. «Devo recuperare il peso forma», sentenzia a ora di pranzo. Il telefonino squilla all’impazzata. Ci accomodiamo nella sala riunioni della sede del Mpa, in piazza Galatea a Catania. Tanto distanti l’uno dall’altro che le domande e le risposte, talvolta, bisogna quasi urlarsele. Parliamo, un po’ più a freddo, dell’assoluzione? «Prima ho dei ringraziamenti da fare. Ai miei avvocati. Il professore Maiello, un maestro del diritto, in particolare nel concorso esterno. Me l’ha consigliato Massimo Russo. E Maria Licata. Per me è stato un colpo di fortuna averla incontrata: impareggiabile per tenacia, intelligenza e serietà. E infine Radio Radicale e l’associazione Nessuno tocchi Caino». Più gioia per l’esito o rabbia per i 12 anni d’attesa? «Non entro nei tecnicismi. Già nella richiesta di archiviazione, dell’ottobre 2011, la Procura sosteneva che non ci fossero gli elementi per avviare il processo. Nel frattempo sono passati 12 anni. In Italia la presunzione d’innocenza non esiste. Specie per un politico si costruisce, da parte dei media, la presunzione di colpevolezza. Un quotidiano in particolare descrisse, in una miriade di articoli, gli atti dell’indagine. Ben prima che ricevessi l’avviso di garanzia. Mi recai a Roma dal direttore Ezio Mauro, mi disse che la loro era “un’autorevole fonte giudiziaria”. Il Tg1 delle 20, il più seguito dagli italiani, con Minzolini direttore mi dedicò per ben 16 volte l’apertura». Sul processo i riflettori sono stati meno accecanti. «Sì. L’opinione pubblica avrebbe scoperto i pentiti che mi accusavano: un pozzo d’ignoranza e di contraddizioni. Ne cito uno per tutti: Tuzzolino, folcloristico e fantasioso, finito malamente perché condannato per aver calunniato persino un magistrato». Resta il dubbio di suoi rapporti con la mafia… «È provato che alla mafia ho fatto danni: basta citare l’alt all’eolico. Non ho fatto assumere, per conto di un mafioso, nemmeno un netturbino precario». Ha detto: ho un perché senza punto interrogativo. «Non ho mai aderito a teorie complottiste. Mi resta solo un grande rammarico: la mia vita politica è stata bruscamente interrotta. Quando, assieme a un gruppo di persone di alto livello, s’era avviato un percorso di riforme: sanità, rifiuti, formazione professionale, lavori pubblici, blocco delle assunzioni alla Regione. Sarò presuntuoso, ma è così. E non si può più tornare indietro». Ci provi. Sliding doors: cosa sarebbe successo se… «Dovremmo riscrivere la storia di Sicilia. Se quella richiesta d’archiviazione fosse passata, io sarei stato rieletto alla grande, stavolta nel segno di autonomia forte e indipendenza dai partiti: un’altra storia. Con Milazzo, appoggiato da Msi e Pci, si spaccò la Dc, con me Forza Italia e Pd, perché il parametro non è destra-sinistra, ma le scelte per la Sicilia». Lei è stato assolto. Ma resta il giudizio politico: il lombardismo fu anche occupazione militare del potere, clientelismo al limite del voto di scambio.  «Era la stagione del rapporto con gli elettori, che oggi non si usa più, almeno alle Politiche. Io mi divertivo, mi realizzavo a parlare con la gente. Nel mio primo mandato all’Ars, dal 1986, la domenica andavo a pranzo a Grammichele dai miei suoceri, sulla Fiat “127”, con mia moglie e i bambini. Pranzavamo alle 14 e dopo un’ora io ero nella casa di mia nonna a ricevere gente fino a mezzanotte». Le chiedevano favori, posti? «Anche, certo. Ma mi raccontavano soprattutto le vicende delle loro famiglie, i litigi fra marito e moglie, come si faceva allora. Chi ha il vero consenso popolare ha più autorevolezza e libertà. La gente s’inchinava, davanti a quei politici. Così era per il senatore Attaguile, come per i miei tre riferimenti politici. Vito Scalia, che mi insegnò l’importanza dei corpi sociali. Francesco Parisi, grande amministratore e legislatore. E Lillo Mannino, sei volte ministro, uomo dalla cultura e memoria prodigiose. Autorevolezza e contatto diretto: le caratteristiche dei veri leader. Ne ricordo solo due. Dinnanzi a Fanfani, allora segretario della Dc, senatori e ministri tremavano. E a Brindisi, nel 1975 a un convegno dei giovani Dc, Andreotti ai ragazzi del suo collegio chiedeva notizie dei parenti, del parroco del paese, citandoli uno a uno». Ci sono degenerazioni: il libro mastro nell’Excel… «Il file Excel non era mio, fui indagato per quel libro mastro. Ma finì con un’archiviazione». Niente autocritica su quel metodo di fare politica? «C’è ancora molto bisogno del rapporto diretto. Io oggi sono costretto a dire che non faccio politica per non essere avvicinato dalla gente che mi chiede qualcosa, anche un semplice consiglio, perché sono fra i pochi ultimi che parla con la gente. E sono tentato di mettere un bel cartello sotto la segreteria: “Tranne i poveri e gli amici storici, chi vuole incontrarmi deve presentarsi con la ricevuta di donazione di 500 euro per adozioni a distanza”. Sulle degenerazioni sono d’accordo con lei. Una delle riforme che assieme a Russo volevamo fare era l’automatismo delle risposte, in ordine cronologico, a qualsiasi istanza dei cittadini alla pubblica amministrazione. Senza conoscenza diretta non c’è la tentazione del favoritismo, tutto è blindato a scambi elettorali. Sarebbe l’ideale, ma la preferenza ci vuole. Così come il finanziamento pubblico ai partiti, se no la politica sarà appannaggio dei ricchi e dei potenti». Era il padrone di Sicilia. Poteva anche impazzire… «Devo tutto alla famiglia. Il pilastro insostituibile. Mia madre, novant’anni, sapeva che la mia vicenda giudiziaria fosse finita. Sta ancora nella casa dove andai per frequentare il quarto ginnasio a Catania, ai Salesiani, con maestri di vita come don Nicoletti, don Martinez, l’avvocato Magnano. Le ho chiesto di pregare di più, senza dirle perché. Lei l’ha fatto…». Sua madre ha pregato, gli altri sofferto e gioito. «Io ho due nipoti, Raffaele e Giacomo Lombardo, che sono figli di mio figlio Giuseppe, chirurgo plastico e microchirurgo. L’altro figlio, Toti, è avvocato da anni e fa un master alla Cattolica in “Crisi dell’impresa ed insolvenze”. E poi naturalmente mia moglie, con cui mi fidanzai nel 1974. A Grammichele, al circolo De Gasperi, dopo una conferenza sullo statista trentino. Lei si fermò ad aspettarmi, io non aspettavo altro. Stiamo assieme da una vita». Magari ora è atterrita dal suo ritorno in politica… «Una volta, se avessi voluto “trasgredire”, mi sarei inventato una riunione politica. Oggi, se mi chiama mia moglie, devo inventarmi un incontro galante per nascondere una riunione politica». Dicono che ora piazzerà i suoi eredi, sugli scranni. «Mio padre fu prosindaco di Grammichele, la politica ce l’abbiamo nel sangue. Ma il problema non si pone. Giuseppe è sempre stato distante dalla politica, Toti non ne vuole più sentire parlare». E suo nipote Giuseppe, figlio di Angelo? «È impegnatissimo al Comune, ma è tutta un’altra storia. Non c’è un’eredità. Non c’è più il vecchio elettorato. Per carità, mi faccio carico dei problemi di alcune persone, oggi molti legati al Covid. Ma non me frega niente del ritorno elettorale».  Chi l’ha chiamata dopo l’assoluzione? «Tanti amici ex Dc: Follini, Cirino Pomicino, Mastella. Ma il primo a è stato Berlusconi. Gentile e affettuoso: “Ti voglio bene, vienimi a trovare…”». E Salvini no? Con la Lega siete federati… «Non mi ha né scritto né chiamato. In compenso ha inviato la lettera pubblicata su “La Sicilia”, in cui Salvini richiama la mia assoluzione per connetterla ai suoi referendum sulla giustizia». Con Cuffaro vi siete sentiti? «Un messaggino. Non lo sento da tempo. Disapprovo le sue critiche alle mie scelte sui termovalorizzatori, ma non fu il motivo della rottura fra noi». E allora perché avete rotto? «Perché mi chiese l’assessore alla Sanità e io invece nominai Russo. Voglio bene a Totò, penso che anche lui me ne voglia. Spero di rivederlo presto». Congratulazioni da esponenti della sinistra? «Tanti amici: Berretta, Cracolici, Crisafulli…». Avrebbe gradito la chiamata di un big nazionale? «Sì. Quella di Massimo D’Alema». Anche da Cancelleri felicitazioni pubbliche.,. «L’ho molto apprezzato. Lo vedrò. E non è il solo». C’è qualcun altro grillino che incontrerà? «Ho sentito l’eurodeputato Giarrusso, che poi è il nipote della mia carissima amica Clelia Papale. Non ci crederà: io ho molti più amici a sinistra…». Quella sinistra che accolse nel suo governo, dopo averlo bardato di magistrati… «Ilarda e Russo c’erano sin dall’inizio. Ilarda me lo indicò l’area Udc, Russo me lo presentarono Pistorio e Leanza: gli proposi di andare alla Camera, lui preferì “un ruolo operativo”. La sanità, per risanarla, ripulirla. Quando cadde il governo, ritengo sui rifiuti, chiesi a tutti di sostenermi sul programma. Entrarono la Chinnici, Giosuè Marino… E a mostrare interesse per quell’esperimento fu proprio D’Alema». Aprì al Pd per una polizza di legalità da Lumia? «Lo conoscevo, era uno dei leader del Pd, gli parlavo. Ma non avevo bisogno di patenti, né di testimonianze antimafia. E lo dico con grande orgoglio». Parliamo di politica? «Finora di che che abbiamo parlato, di hockey?». Parliamo di attualità politica regionale… «Sì. Ma le devo una precisazione: le microspie che lei ha piazzato a casa di Stancanelli, nel pranzo con me e Miccichè, non hanno captato tutto. Mi hanno invitato perché Gianfranco voleva compiacersi della sentenza. Avevo già visto Stancanelli, mio compagno di scuola, Miccichè e anche Musumeci. Ma ero lì lì per un sobrio brindisi. E, da astemio che non beve manco caffè, ho scelto l’unica alternativa: il prosecco». Avete però discusso anche di Regionali… «Sì. E anche su questo la devo contraddire. Minardo non è stato bocciato, ha la stima di tutti. Miccichè, quando gli abbiamo posto il tema del candidato che spetta alla Lega, s’è limitato a dire che “se c’è un Miccichè, io o mio fratello, Minardo, a cui voglio bene come un figlio, potrebbe fare un passo indietro”. Ma la partita è ancora aperta». Musumeci è già fuori da questa partita? «A tutto c’è rimedio. Se lo si vuole trovare. Quel Palazzo gioca brutti scherzi. Chi sta lì dentro sembra irrigidito negli affetti, si vive una sindrome dell’accerchiamento. Ma Musumeci è sempre il presidente uscente, ha una chance in più rispetto agli altri». Al governatore hanno chiesto la testa di Razza. «Non condivido le critiche feroci al giovane Razza. Fra i politici di nuova generazione spicca per intelligenza ed educazione. Ma è stato caricato di un ruolo politico improprio: col Covid ci volevano quattro assessori alla Salute, non uno che fa pure politica». E in campo c’è il suo ex delfino Cateno De Luca… «Ha capacità di lavoro fino allo sfinimento, coraggio fino alla temerarietà, è insofferente a qualsiasi disciplina se non quella imposta da sé. Ontologicamente autonomo e indipendente, giocherà la sua partita». Da solo fino alla fine, senza allearsi con nessuno? «Secondo me correrà da solo. E poi magari conta di farsi cooptare nel governo. Qualunque esso sia». Anche lei sta giocando con almeno un paio di mazzi di carte. Il suo candidato trasversale è Russo, ma non le dispiacerebbe Chinnici col centrosinistra… «Io non lancio nomi e candidati, né esprimo opzioni. Il mio governo ebbe assessori di altissimo livello. Di Armao candidato si parlò già nel 2017, ora si ipotizza della Chinnici: un ottimo assessore, conosco bene suo marito, ma lei non la sento. Russo è un amico: m’è stato vicino dal punto di vista umano, ma anche con consigli per il processo. Dopo l’esperienza nella mia giunta, è l’unico che è uscito dalla politica. Finì “esiliato” per cinque anni a Napoli…». Si alleerebbe con Pd e M5S? «L’Mpa s’è sempre alleato col centrodestra, tranne quando appoggiò Miccichè nel 2012. L’autonomia non è di destra né di sinistra, è un’altra categoria». Un suo classico: si sta lasciando le mani libere… «No. Oggi siamo al governo, con un assessore». Non sarebbe stuzzicante stare col centrosinistra con Chinnici in lizza? «Non so se l’aggettivo giusto sia “stuzzicante”». In campo ora ci sono i suoi allievi: Barbagallo segretario dem, il renziano D’Agostino. E tanti altri. «Con alcuni è rimasto un forte rapporto, con tutti stima e sintonia al di là della militanza». L’accademia Lombardo è servita? «Sono bravi, tutti. E intelligenti». Ha ritrovato un Mpa senza tanti big. Sono fuggiti. «In tutti questi anni il movimento s’è retto sulle spalle di una sola persona: Roberto Di Mauro». E adesso che lei è tornato, ammesso che se ne fosse mai andato, che fa? Si ricandida, cerca la rivalsa? «Mi limiterò a dire quello che penso. Il destino, l’orizzonte della Sicilia non è il Nord Europa, a cui guarda l’Italia, rispetto al quale siamo marginali e periferici. Ma è il Mediterraneo. All’Isola occorre la libertà di fissare i tributi, di commerciare, di intrattenere relazioni. Ma per esercitare la vera autonomia occorre una nuova consapevolezza e una grande forza politica regionale. Facciamo un confronto con Malta, Stato indipendente: un decimo di territorio e popolazione della Sicilia, eppure sviluppo e benessere, nell’Ue tre deputati, un commissario e ora la presidente del Parlamento. E noi sempre inchiodati sulla grande beffa del Ponte sullo Stretto. Per questo occorre una nuova Autonomia, nel contesto di uno Stato italiano finalmente federale». Sta ufficializzando la sua ridiscesa in campo come leader di un nuovo movimento autonomista? «Non penso a cariche politiche, né le cerco. Guiderò una fondazione per l’Autonomia che promuova ricerca e formazione. Mi scusi, ora devo lasciarla». Usciamo. Fuori, nell’anticamera, tre persone. E sotto, al bar, molti volti noti in attesa. È il distanziamento anti-Covid. Del vecchio nuovo Lombardo. Twitter: @MarioBarresi

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