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Paolo il Calmo alla “sagra” del Pd-Ogm e il “miracolino” unitario (durato 15 minuti)

Di Mario Barresi |

CATANIA – E alla fine è Paolo il Calmo a infiammare. A fare il “mister” in uno spogliatoio dilaniato, a motivare una truppa piuttosto malconcia. «Abbiamo cinque punti di svantaggio dal centrodestra, li possiamo recuperare. Ma ci manca la convinzione che possiamo dare un contributo alla vittoria del Pd e al prossimo governo del Paese: crediamoci, insieme».

Paolo Gentiloni sveste i panni di premier in visita istituzionale, indossando quelli di leader di partito. E, alla sagra siciliana dei dem-ogm, dice anche qualcosa di sinistra: «Se non riusciamo ad affermare la forza del Pd, il rischio è che il Paese prenda la piega del nazionalismo, dell’odio, addirittura della violenza: sono cose che l’Italia civile non ha mai permesso in settant’anni. Non possiamo adesso».

Tutti in piedi per il Gentiloni candidato “catanese”. Un’iniezione di fiducia, anche grazie a una sala stracolma (quella “grande” delle Ciminiere memore dei raduni lombardiani, sorella maggiore della saletta semi-vuota alla prima di Micari alle Regionali) alla presentazione dei candidati etnei alle Politiche. Ad accogliere Gentiloni tutta la varia umanità delle tribù siciliane del Pd. In prima fila anche i dem epurati dalle liste, in via diretta o per interposti trombati, come Concetta Raia e Anthony Barbagallo, fra sorrisi tirati e frasi di circostanza. Un purgatorio surreale, dopo la purga renziana. Aspettando il 5 marzo.

Matteo aleggia, Paolo è qui. E compie il miracolo (o “miracolino”; durata: 15 minuti di discorso) di incerottare l’anima del Pd siciliano. Tirando fuori il vecchio orgoglio di coalizione: «La sfida è tra centrodestra e centrosinistra», scandisce Gentiloni. E, proprio mentre Renzi parla di un confronto a due con i grillini (nel proporzionale), il premier tratteggia l’alternativa tra il centrosinistra («Anche se non è l’Ulivo…», sospira in un singulto di nostalgia prodiana) e il centrodestra. «Vi raccontano che è popolare ma non è così, è peggio del centrodestra che abbiamo combattuto in passato: populista e nazionalista». E in questo contesto la Sicilia (stima demoscopica unanime: zero collegi all’uninominale) «può essere decisiva». Cita il «buon governo delle amministrazioni», con una gaffe sulle città metropolitane a guida Pd: «Le governiamo tutt’e tre», dice. Per poi correggersi (qualcuno gli rammenta Accorinti con la maglietta “Free Tibet”): «Ah, vero governiamo le principali: Palermo e Catania».

Il suo «amico di vecchia data, anche se io sono molto più giovane di lui…», cioè Enzo Bianco, gli lancia la volata finale. Ricordando la «straordinaria mattinata» vissuta in città, togliendosi «qualche sassolino» (compresa la replica all’assessore Sgarbi: «Non abbiamo bisogno dei tuoi soldi, il Museo Egizio lo facciamo con i soldi del Patto»). E poi il sindaco saluta Gentiloni con una mozione del cuore: «Ti auguro di vincere nel tuo collegio a Roma, ma di sentirti un eletto a Catania e di tornare qui da presidente del consiglio anche dopo le elezioni». Davide Faraone, viceré renziano di Sicilia, ha quasi uno spasmo. Poi sorride. E smanetta con lo smartphone: che sia partito un sms d’allerta in tempo reale nella chat del Giglio Magico?

Tutto ciò che succede prima è la visione plastica del Pd siciliano di oggi. Un partito che mostra i muscoli, accogliendo Gentiloni con un bagno di folla. Tanti supporter, molti giovani e diversi sindaci; sparuti i medici e gli aspiranti manager sanitari (siamo alla vigilia delle nomine del governo regionale di centrodestra), in una sala dove i vincenti renziani si muovono da padroni di casa e tutti gli altri perdenti da ospiti. «Siamo più forti di quello che noi stessi crediamo», arringa il segretario etneo Enzo Napoli. E Fausto Raciti prova convincere che «non è l’elezione dei candidati, ma della squadra». Poi tutti i candidati. Gli uscenti (e difficilmente rientranti), come l’orlandiano Giuseppe Berretta, «impegnato per vincere» e l’ex bindiano e ora (ancora?) boschiano Giovanni Burtone, che cita il padre protagonista della Resistenza «sulle montagne». Reazione fredda in sala: qui i “partigiani” sono piuttosto una corrente dem nemica. Curiosità per le new entry: applausi a Francesca Raciti «emozionatissima» nel leggere il discorso; efficace Maria Grazia Pannitteri, che, con la flemma di una lettura evangelica, invoca «più equità sociale». Piace la freschezza di Francesca Ricotta, 28 anni (l’unica citata da Gentiloni nel suo discorso), che racconta il calvario dei neo-laureati invocando la soluzione della «questione giovanile». Ma è quarta nel plurinominale: Montecitorio, per lei, è un sogno proibito.

Il discorso più “piddino” lo fa Nicola D’Agostino, deputato regionale di Sicilia Futura: «Nei collegi lotteremo fino alla fine anche per portare un singolo voto in più al partito per il proporzionale». Che sia arrivato, dopo il rito di consegna all’ex alfaniano Dore Misuraca, il momento di dargli la sospirata tessera del Pd? «Per me è uno di noi, da anni. La tessera ce l’ha di fatto in tasca», certifica Faraone.

Infine, la coppia d’oro del Pd siciliano. Valeria Sudano e Luca Sammartino, acclamati da mattatori. Si auto-concedono una deroga all’ordine «rigorosamente alfabetico» annunciato dalla presentatrice Valeria Maglia sulla sequenza dei candidati. Prima parla lei, Valeria, futura senatrice con posto blindato al proporzionale: «Ognuno di noi ha fatto la gavetta, non ci sono cavallette (crasi involontaria fra cavalle e vallette, ndr) o troniste». Perché «la politica, per noi, non è brutta, sporca e cattiva, ma è una cosa seria». In prima fila applaude suo zio Mimmo, ex ras dc, impegnato a baciare centinaia di elettori prima e dopo la kermesse. Chiude lui, Luca, accolto da una standing ovation: «Il Pd è qui. Ed è una festa». E Sammartino, ringraziando (sottile ironia?) il segretario Napoli «per l’organizzazione di questa serata», lancia la sfida: «Supereremo gli argini della diffidenza, contro chi non crede che noi siamo una squadra». Siamo una squadra fortissimi, direbbe Checco Zalone.

Twitter: @MarioBarresi

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