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Viaggio nei Comuni al voto: Agrigento, 6 candidati in cerca d’autore

Di Mario Barresi - Nostro inviato |

AGRIGENTO – Ma no, Pirandello e Camilleri teniamoli fuori. E non solo per la diaspora campanilistica con a’ Marina, Porto Empedocle, un microcosmo distante dieci chilometri e altrettanti anni luce da qui. Cioè da Agrigento, dove quella elettorale, sfrondata da facili suggestioni letterarie, sembra piuttosto una partita a Twister. Il gioco di società, esploso in America negli Anni 60, in cui si mette la mano destra sul cerchio giallo e quella sinistra sul rosso, un piede sul verde e l’altro sul blu, fino a ingarbugliarsi a tal punto da cadere a tappeto.

E così è per i sei giocatori che, nella prima volta senza il “fattore doppia A” (come Angelino e come Alfano), si contendono la poltrona più importante di Palazzo dei Giganti, in una campagna elettorale con molti nani e un certo numero di ballerine. In piedi, dopo contorsionismi da funamboli circensi, alla fine ne resterà solo uno.

Il più accreditato farcela è Lillo Firetto. La lepre dal pelo biondo (talvolta tendente al rossastro, a discrezione del barbiere) inseguita da tutti gli altri. Negli ultimi cinque anni è stato il sindaco di Agrigento, ma lo fu, dal 2006 al 2015, anche di Porto Empedocle, dopo aver fatto il consigliere comunale e l’assessore provinciale, con in mezzo una legislatura all’Ars con l’Udc. Giovane rampollo del partito di Totò Cuffaro, pur senza essere mai troppo cuffariano (fu l’ex ministro Gianpiero D’Alia, con cui poi ruppe, a valorizzarlo), poi vicino ad Alfano senza essere mai troppo alfaniano. Infine, alfiere del civismo più puro sotto la cui bandiera si ripresenta per «continuare il cambiamento». Lo fa presentando il bilancio del quinquennio, in cui spicca il risanamento dei conti. Il che stride con un’indagine sul bilancio di Porto Empedocle: Firetto è stato assolto con tre sentenze dalla Corte dei conti, ma il filone penale è ravvivato dalla richiesta di rinvio a giudizio dei pm per falso in atto pubblico, udienza preliminare proprio il 6 ottobre, il giorno dopo lo spoglio; sullo sfondo anche un’altra vicenda giudiziaria, con il gioiello di famiglia, il castello Colonna di Ioppolo Giacaxio, sequestrato per un presunto abuso edilizio.

Ma Firetto va come un treno, con sette liste, tutte civiche e corazzate. In cui ci sono le tracce residue del Pd (senza simbolo nella più importante città siciliana al voto), dalle quali emerge il solo Gerlando Riolo, assessore si stretta osservanza firettiana. Ma altre due liste sono riconducibili al potente deputato regionale Carmelo Pullara. Il manager sanitario, licatese ma con molti amici nel capoluogo, testa la sua macchina da guerra con aspirazioni movimentiste regionali, noncurante delle ombre giudiziarie, l’ultima delle quali è la richiesta di arresto nell’inchiesta palermitana per corruzione alla Cuc. Firetto è un centro di gravità permanente che attrae molti delusi dai partiti: giovani, professionisti, ambientalisti. E anche una figlia d’arte: Giorgia Iacolino, erede dell’ex eurodeputato, assessora designata e pecorella azzurra smarrita. «Vuole restare in Forza Italia e fare l’assessore di Firetto? Cu ’sta minchia…», l’elegantissima fatwa pronunciata in pubblico da Gianfranco Miccicichè.

I due sfidanti più accreditati sono Marco Zambuto e Franco Miccichè. Il primo è il predecessore di Firetto: fu sindaco dal 2007 al 2014, quando – condannato in primo grado a due mesi e 20 giorni per abuso d’ufficio – si dimise, per poi uscire immacolato dal processo, scelta di cui adesso fa un vanto e un punto di distinzione dall’indagato in carica. Figlio di Calogero, sindaco democristiano, anche Zambuto, dopo una militanza giovanile nello scudo crociato, si forma alla scuola udc, dove proprio Firetto è il suo “gemello diverso”. E anche il giovane avvocato, pur respirando cuffarismo a pieni polmoni, cerca e trova copertura altrove, presso l’ex ministro Francesco D’Onofrio.

La trafila di Zambuto è molto più accidentata: dall’Udc al Pdl e ancora con Pierferdy Casini, prima di finire nel Pd, tendenza renziana, con cui si candida pure alle Europee 2014. L’anno dopo è costretto a dimettersi dalla carica di presidente dell’assemblea regionale dem per la bufera suscitata da un suo “viaggio della speranza” ad Arcore, ricevuto da Silvio Berlusconi. Con Zambuto, allora come oggi, c’è sempre Riccardo Gallo, potentissimo forzista girgentano. Che ha costruito il ritorno in grande stile dell’ex sindaco (nel frattempo avvistato ad Atreju a bussare alla porta di Giorgia Meloni), con uno schema di centrodestra tradizionale “sovranismo free”: Forza Italia, l’intramontabile Udc del segretario regionale Decio Terrana in cerca di certificato d’esistenza in vita, e DiventeràBellissima (endorsement di Nello Musumeci in persona e comizi di Ruggero Razza affiancato da Giusi Savarino), più una sostanziosa spruzzata di civismo. All’insegna del #RiparTiamo, un hashtag che unisce discontinuità e amore.

Una ricetta simile a quella di Franco Miccichè, il candidato civico, un medico-galantuomo che in città fa il pieno di stima e fiducia. Poteva essere tante cose, in questa contesa: il candidato unico del centrodestra, se i partiti avessero fatto un passo indietro; il vero anti-Firetto, se non fosse stato assessore dell’uscente, il che lo castra un po’ nel corpo a corpo; l’autentica novità, se il suo dante causa non fosse così smaccatamente Roberto Di Mauro, vicepresidente dell’Ars e highlander della politica agrigentina, che per Miccichè ha litigato con Pullara (cacciato dal gruppo a Sala d’Ercole)e con la Lega (che s’è sfilata all’ultimo, uno sgarbo che mina il patto regionale con i lombardiani). Miccichè ostenta la sua essenza di uomo della società civile, da camice bianco assolda il filosofo No Vax Diego Fusaro fra gli assessori, ma è di fatto in campo da un anno e il fiato gli comincia a mancare. Così come gli è mancato il sostegno di Lega e Fratelli d’Italia.

I seguaci di Matteo Salvini e Giorgia Meloni ad Agrigento sperimentano un asse sovranista. Puntando, ironia della sorte, su un’alfaniana doc: Daniela Catalano, apprezzata presidente del consiglio comunale uscente (eletta con la maggioranza di Firetto), con un pedigree moderatissimo. Sulla spaccatura del terzo pezzo di centrodestra pesa anche una dinamica interna al Carroccio: l’ostracismo di Alessandro Pagano, proto-leghista della prima ora, sull’idea di mettersi in casa un competitor come Di Mauro. E così Stefano Candiani, viceré salviniano di Sicilia, s’è convinto a «scompaginare», grazie anche alla complicità di Annalisa Tardino, eurodeputata (licatese), nominata commissaria cittadina, assessora designata da Catalano. Il cui risultato è un’incognita: è sostenuta dai partiti più forti della coalizione, ma le Amministrative sono un’altra storia.

Firetto confida sul fatto che Zambuto e Miccichè si erodano a vicenda, per arrivare al fatidico 40% della vittoria al primo turno. Perché in caso di ballottaggio i due potrebbero canalizzare l’odio reciproco dei loro padrini politici (Gallo e Di Mauro) in un odio, ancor più profondo, per l’uscente aspirante rientrante. E anche Lega e FdI potrebbero convergere sul secondo arrivato. Ma Firetto, in cuor suo, accarezza anche l’idea che la quarta vittoria al primo round (due a Porto Empedocle, eventuale bis ad Agrigento) lo proietterebbero nell’olimpo del “partito dei sindaci”, in cui il Leoluca Orlando è al tramonto e Salvo Pogliese in affanno giudiziario. Una wild card da giocarsi per una futura corsa a Palazzo d’Oréans? Si vedrà. Prima deve dimostrare che ad Agrigento lo rivogliono a furor di voti.

Guardandosi anche dalle due più puntute spine nel fianco di quest’ultimo quinquennio. Le battagliere consigliere d’opposizione Marcella Carlisi (M5S) e Angela Galvano (Articolo 1). Chiunque, fra loro, avrebbe potuto incarnare il ruolo, ben più competitivo, di candidata modello giallorosso. Ma la liquefazione del Pd, comunque sedotto da Firetto, in micro-tribù (forse la prima resa della segreteria regionale di Anthony Barbagallo) e la guerra fra bande pentastellate ha fatto sì che le due candidature, fresche e davvero alternative, si depotenziassero a reciprocamente. Rendendo più forti le singole debolezze. E così la grillina Carlisi può ululare che «sono tutti una cosa», inserendo anche la rivale donna in un riuscito meme social dal titolo “House of Lapazza” e rinfacciandole la sua esperienza da assessora di Zambuto, sindaco all’epoca rosso fra le due parentesi azzurre. Galvano ha fatto però una chiara scelta di campo: uscire dal Pd che «si è trasformato in qualcosa che non mi appartiene». Anche se molti elettori dem smarriti la voteranno, ora che lei è bersaniana appoggiata anche dal movimento di Claudio Fava.

Ma anche Carlisi sconta qualche fragilità. A parte il calo di desiderio per il M5S, deve provare a nascondere la polvere di (cinque) stelle sotto il tappeto, invisa al capetto locale, il deputato Michele Sodano, e snobbata dai leader nazionali. Luigi Di Maio ha comiziato persino a Casteltermini e a Ribera, tenendosi a distanza dalla Valle dei Templi.

Eppure dovrebbe vincere lei, Carlisi, solo per il gusto di vedere realizzata un’idea meravigliosa: la «riduzione della Tari per chi ha almeno una coppia di galline che nutre con l’organico». È il progetto “Adotta 2 galline”, inserito a pagina 14 del programma del M5S «anche per contenere il fenomeno dei pollai abusivi». Molto più che un auspicio contro i galletti della vecchia politica girgentana, in questa caotica contesa fra sei personaggi in cerca d’autore.

Twitter: @MarioBarresi

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