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Il voto

«Vincìu Trantino!» (già a mezzogiorno) tra il bon ton e i mugugni degli sconfitti

Diario disordinato del voto. Dalle distratte premonizioni alla Pescheria “arcobaleno”

Di Mario Barresi |

Una città distratta. Come quel tipo che, a mezzogiorno, sorseggiando un mandarino verde al limone nel chiosco di piazza Roma, ostenta e ostende la notizia agli astanti: «Allora, ’sti elezioni? Vincìu Trantinu, si sapeva dal principio». E quando un altro signore, mentre si brucia le labbra col caffè bollente, gli rammenta che «veramente si vota ancora fino alle tre», il politologo della porta accanto non si dà per vinto: «Ma tanto inutile, è. Ha già vinto Trantino, prende più del sessanta per cento».

Così, nella distrazione che diventa facile premonizione, Catania si risveglia come se fosse il campo principale di Tutto il calcio minuto per minuto ma senza il «clamoroso al Cibali». Sì, perché la vittoria di Enrico Trantino si respirava sin dall’inizio di questa campagna-lampo, noiosa come una retrospettiva sul cinema vietnamita e di fatto mai combattuta fino in fondo.

E così il gentleman’s agreement fra il predestinato di centrodestra e Maurizio Caserta, il delizioso alieno progressista, diventa una gabbia anche per imprigionare le tentazioni di chi – pur scrivendo nella scheda, più per obbligo che per vocazione, il nome di uno dei candidati consiglieri delle corazzate di Fratelli d’Italia, Lega, Forza Italia, Lombardo e Cuffaro – avesse avuto la benché minima tentazione di fare un voto disgiunto. Magari per dare un segnale del percepibile e percepito senso di insoddisfazione degli ultimi cinque anni vissuti sulle montagne russe delle vicende giudiziarie dell’ex sindaco Salvo Pogliese.

E allora i catanesi, numeri alla mano, tutto sommato non sono così insoddisfatti come si dichiarano nelle chiacchiere da bar e nei sondaggi (quelli veri, giammai le rilevazioni da sartoria demoscopica napoletana su misura), anche perché il nuovo inquilino di Palazzo degli Elefanti ha sempre ostentato «la continuità» con l’amministrazione uscente. Ha gioco facile, dunque, Pogliese a rivendicare «la qualità della nostra azione di governo». I numeri gli danno ragione, così come confermano che – nella perdurante luna di miele degli elettori con Giorgia Meloni – un candidato scelto dall’alto, anzi dall’altissimo, e serenamente imposto agli alleati, con Valeria Sudano costretta a scendere giù dai 6×3, diventa sindaco con oltre il 65%.

«Abbiamo fatto il botto», gongolano i dioscuri della coalizione. Se tanto dà loro tanto, le liste (ancora più forti del candidato sindaco, nelle proiezioni dei ras locali) faranno un botto ancor più fragoroso, degno dei fuochi da Sira ’o Tri. Gongolano. E pensano alla spartizione dei posti, con il “Cencelli alla Norma”: ogni seggiola vale da 0,5 a 3 punti, e va distribuita dividendo i voti di lista per un coefficiente già fissato.

Ma alla fine ha vinto – anzi: ha stravinto – soprattutto Trantino. Che ci ha messo la faccia (pulita), riuscendo a far passare un messaggio rassicurante anche a un certo elettorato alto borghese. Lo stesso che, sotto il Vulcano, votò per Nello Musumeci alle Regionali del 2017. Ma ha pesato di più il selfie con tutti i leader nazionali del centrodestra, venerdì scorso sul palco di piazza Università, oppure la foto “kennediana” della bella famiglia di un aspirante sindaco figlio di un ex missino e monarchico? Nella notte, ormai, il risultato del candidato sindaco è già negli annali. E la ricerca, spasmodica, s’indirizza su altri dati: le liste, i singoli candidati, le correnti interne, i consiglieri di circoscrizione.

I meriti dei vincitori, le colpe degli sconfitti. A partire dagli outsider: Cateno De Luca s’è concentrato sulla conquista di Taormina, abbandonando il pur brillante Gabriele Savoca al suo destino; Lanfranco Zappalà non ha saputo fare il salto di qualità; di Peppino Lipera si ricorderanno, a livello interplanetario, il grande bluff su Fabrizio Corona candidato e i video-cult su TikTok; poca roba tutti gli altri, pur dignitosi nella loro partita. I veri perdenti sono i progressisti. Al comitato di Caserta – al Nettuno, storico quartier generale dei candidati di centrodestra – il clima è da disfatta. Di Enzo Bianco, che rischia l’estinzione politica con la sua lista ben sotto il 5%, nemmeno l’ombra. Di lui, come di tutti gli altri leaderini teorici della «remuntada». Pd e M5S, con gli altri alleati fuori dal consiglio, si spartiranno le magre spoglie dell’opposizione.

Il professore telefona più volte a Trantino, senza risposta. Poi arriva un sms con la notifica di una chiamata dal mancato interlocutore. «Qui sotto la linea non prende, ci stiamo inseguendo come gli innamorati», sorride con l’ultima residuale voglia di sorridere che gli è rimasta in corpo. Poi, finalmente, il contatto. I complimenti e gli «auguri di buon lavoro», a cui il vincitore risponde con un’offerta di «collaborazione istituzionale nel rispetto dei ruoli». Caserta annuisce con una convinzione che sembra sincera: «Per le cose buone che vorrai fare, noi ci saremo».

Una contesa fra gentiluomini, fino alla fine. Ma, qualcuno, nei corridoi progressisti, mugugna: «La nostra campagna elettorale doveva essere completamente diversa: alla Cateno De Luca, provocando gli avversari su tutte le carenze di questa città, sui disastri e sulle magagne del centrodestra, a partire dagli ultimi scandali nella sanità, che non sono stati mai tema di dibattito». La stessa fonte però ammette che «sin dall’inizio sapevamo che Maurizio non era la persona giusta per questa, pur essendo un candidato di altissimo profilo, pure troppo per l’elettorato catanese». Uno snobismo implicito, che però non tiene conto dell’assoluta indifferenza dell’elettorato dei quartieri popolari allo spettro – a dire il vero agitato con molta parsimonia dai grillini, a partire dalla vicesindaca designata Nunzia Catalfo – del “game over” sul reddito di cittadinanza. «Non vogliono votare il candidato della Meloni, ma non sanno che votando il consigliere del Caf il voto va automaticamente a Trantino», l’allarme a sinistra nelle due settimane. Ma, se non lo sapevano, è perché nessuno ha saputo spiegarglielo.

Eppure, quando al comitato progressista restano pochi intimi, la delusione partorisce la confessione. Un aneddoto, risalente al primo tour di Caserta in Pescheria. A un certo punto, da una bancarella, gli si avvicina un tipo in vena di liscìa. «Prufissuri, io a lei la voto. Picchì Pogliesi ni lassau ’nmenzu a munnizza e poi c’è chiddu, du puppu di Biancu… Io voto a lei». Il professore, senza scomporsi, gli risponde: «Veramente Bianco è con me. E sono io a essere omosessuale. Le crea problemi la cosa?». L’uomo della Pescheria abbozza: «Vabbe’, prufissuri, non c’è pobblema. Anche mia cognata avi un figghiu down… io a lei la voto perché mi fa simpatia». Sappiamo come è andata a finire. E forse sappiamo anche perché a finisce sempre così.Twitter: @MarioBarresiCOPYRIGHT LASICILIA.IT © RIPRODUZIONE RISERVATA


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