La relazione con l’animale che aiuta a curare il corpo ma anche l’anima

Di Maria Ausilia Boemi / 21 Novembre 2016

Una attività che non utilizza l’animale, ma lo coinvolge: «L’animale – spiega il dott. Asero – non è utilizzato come se fosse un oggetto, ma è coinvolto in una dinamica relazionale. E questo è importante perché la pet therapy possa avere un valore». Coinvolti, oltre al classico cane, anche pappagalli e coniglietti e, talvolta, pure i gatti, purché siano stanziali nella struttura dove si deve operare: «La scelta dell’animale – spiega il dott. Asero – dipende dalla tipologia degli utenti ma anche dagli obiettivi da raggiungere. Nel nostro caso, parliamo solamente di animali domestici, dai più piccoli ai più grandi. Il cane è l’ animale di eccellenza dal punto di vista relazionale. Anche il gatto va benissimo, solo che ha un problema di territorialità: quindi, quando noi portiamo il gatto in un ambiente nuovo, passano dei giorni prima che si adatti e che possa relazionarsi con le persone del luogo. Invece, in un centro dove ci sono i gatti e gli utenti vanno in quel centro, allora il felino va benissimo perché è totalmente a suo agio ed è pronto e disponibile a scambiare, a relazionarsi, a interagire. È solo una questione di etologia».

 

La coop collabora con una fattoria pedagogica, ma per l’80% dei casi lavora a domicilio, nelle strutture esterne: in particolare, in strutture per anziani, attualmente all’Oda, ma soprattutto nelle scuole. «Qui lavoriamo per i bambini diversamente abili, creando però gruppi integrati nell’ambito della classe. Cerchiamo di raggiungere gli obiettivi che ci vengono prefissati dall’équipe pedagogica della scuola che ci chiama per un problema. Abbiamo lavorato ad esempio sul bullismo in alcune scuole a rischio a Catania: attraverso il rispetto della diversità dell’animale, si attiva l’interiorizzazione di regole verso terzi e quindi il rispetto dell’altra diversità del compagno. Ma la pet therapy serve anche in presenza di difficoltà dell’apprendimento: in pratica, quello che noi facciamo è inserire un soggetto relazionale per motivare i bambini all’apprendimento e a raggiungere gli obiettivi. Le faccio un esempio: se ci sono alunni non motivati a rispondere se la maestra chiede loro quanto fanno due matite più due matite, inserendo invece l’animale e creando una relazione con il pet, il bambino si apre e quando gli chiediamo quanto fanno due zampe più due orecchie, risponde 4, proprio perché c’è una motivazione, una dinamica relazionale diversa da quella che normalmente c’è in classe. L’uomo ha una motivazione innata, che risale alla preistoria, verso l’animale. Ci portiamo da allora nel nostro patrimonio genetico questa relazione, questo interesse verso gli animali».

 

Pet therapy, quindi, utile in tanti campi: «Dall’educazione alla fisioterapia – conferma il dott. Asero -, dalla riabilitazione alla didattica. Abbiamo lavorato ad esempio in una scuola di Adrano con un tasso altissimo di dispersione scolastica: nel giorno in cui portavamo l’animale in classe, quasi nessuno si assentava».

 

Ad essere utilizzati gli animali di proprietà dei professionisti che lavorano nella coop: «Il nostro approccio – spiega infatti il dott. Asero – è relazionale: ciò significa che sfruttiamo non l’animale, ma la relazione che si crea col pet. E per avere una buona relazione, è necessario che ogni operatore abbia un buon rapporto con l’animale. Per questo, ognuno dei professionisti che lavoriamo nella coop, proprio per il nostro approccio e la nostra modalità, ha il proprio animale, lo tiene con sé, ci vive per tutta la vita. L’animale lo conosci infatti bene quando ci vivi. C’è d’altronde una particolare selezione: non tutti gli animali vanno bene per fare questo tipo di lavoro. Questo non vuol dire che gli altri sono da scartare, ma dobbiamo fare in modo che il pet provi piacere a relazionarsi con l’uomo. C’è quindi una selezione da piccoli, si cerca l’animale più prosociale. Se abbiamo un cane che per vari motivi – di socializzazione dall’inizio, distacco dalla madre e così via – non ha piacere oppure ha poca resistenza nel relazionarsi con l’uomo, è meglio che lo teniamo per altro. Quelli che noi coinvolgiamo in questo tipo di lavoro devono avere queste caratteristiche ben marcate: mediamente, su 10 cani che ho avuto e selezionato, solo 3-4 sono stati coinvolti in questa esperienza. Gli altri mi hanno ovviamente dato altri tipi di soddisfazioni. Il cane è infatti felice quando collabora con l’uomo: posso dare a un cane un parco bellissimo, posso curare tutti i suoi bisogni primari, ma se non lo inserisco come soggetto sociale, assecondando la sua collaborazione sociale, il cane è triste».

 

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