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La storia
Il neonato gettato tra i rifiuti a Ragusa, la madre ora lo rivuole
Dal sacchetto di plastica in cui madre e padre lo abbandonarono vicino ai cassonetti, alle braccia dei genitori che lo accolsero: oggi Vittorio Fortunato ha 3 anni e il Tribunale dei minori decide: «Ridatelo alla mamma biologica»
«Stavo passando davanti alla macelleria, non c’erano macchine parcheggiate e ho visto un sacchetto della spazzatura. Mi sono avvicinato per gettarlo nei bidoni qui vicino. Mi sono abbassato e ho sentito dei lamenti. Ho aperto il sacchetto… un bambino. Era un bambino. Era avvolto in una copertina, pieno di sangue. Sono cose che credi di potere vedere solo nei film e invece è capitata a me. Non la scorderò per tutta la vita. Si sta male, mi creda. Mi hanno detto che il piccolo sta bene. Sono felice. Chissà la mamma quanto debba essersi sentita sola, oggi che è possibile anche affidare un figlio in ospedale. Non lo hanno buttato nei bidoni della spazzatura, forse sapevano che a quell’ora qualcuno sarebbe passato, per accompagnare il cane, insomma questa non è una zona isolata o deserta. C’è sempre qualcuno che passa».
Il macellaio “eroe”
E’ il 4 novembre del 2020. E’ buio e la colonnina di mercurio segna 6 gradi. In via Saragat a Ragusa un macellaio diventa eroe. Ha salvato un piccolo appena nato e abbandonato. Con un filo di voce rotta dall’emozione, l’uomo racconta i momenti concitati del ritrovamento mentre il piccolo viene ricoverato in Terapia intensiva neonatale all’ospedale Giovanni Paolo II e la polizia avvia le indagini informando l’Autorità giudiziaria competente presso il Tribunale dei Minorenni di Catania e quella di Ragusa. Un lieto fine. E con la pandemia che serpeggia, l’Italia ha bisogno di notizie che scaldano il cuore.Una valanga di affetto e attenzione travolge il piccolo che le infermiere chiamano Vittorio Fortunato. L’attenzione di social e media si concentra su quel fagottino che ignaro del clamore che ha accolto il suo travagliato arrivo nel mondo, respira. Attorno a lui si muove il percorso della tutela e ognuno, per ruolo e competenze, disegna i binari del suo destino. E mentre si moltiplicano le iniziative di solidarietà in tutte le forme che il cuore detta, gli investigatori cercano i genitori e il Tribunale avvia l’iter che legge vuole. Vittorio Fortunato mangia, dorme e supera le difficoltà che gli hanno fatto sfiorare la morte. Non sa che mamma e papà non lo stanno cercando. E se gli strumenti forniti da madre natura saranno rispettati, non lo saprà mai. Il Tribunale nomina un tutore legale nei due giorni successivi alla nascita e quindici giorni dopo trova una famiglia. Attorno a Vittorio Fortunato il clamore e il calore della gente comune, accanto il silenzio omertoso della donna che lo ha partorito. Da norma giuridica «la madre con particolari e gravi motivi che le impediscono di formalizzare il riconoscimento, può chiedere al Tribunale per i minorenni presso il quale è aperta la procedura per la dichiarazione di adottabilità del neonato, un periodo di tempo per provvedere al riconoscimento. In questi casi la sospensione della procedura di adottabilità può essere concessa per un periodo massimo di due mesi, nel quali la madre deve mantenere con continuità il rapporto con il bambino».
Il silenzio della madre
La donna che ha partorito Vittorio Fortunato, tace. Non provvede al riconoscimento, non chiede alcuna sospensione, non chiede aiuto ai Servizi sociali. A sedici giorni compiuti, Vittorio Fortunato lascia l’ospedale e comincia la sua vita tra le braccia di una mamma e un papà. E se la realtà fosse favola, finirebbe qui.
Il padre
Il padre. E’ passato poco più di un mese quando il 7 dicembre l’arresto del macellaio riaccende i riflettori su Vittorio Fortunato. L’uomo, 59 anni, sposato con figli, secondo la polizia, è il padre del piccolo. Viene accusato di abbandono di minore e finisce in cella. Gli investigatori scoprono che in via Saragat a Ragusa è arrivato partendo da Modica. E’ lì che ha preso il bambino appena partorito da una donna con la quale aveva già un’altra figlia. Lui conferma e si difende: «Sono andato all’ospedale, ma con il Covid era un caos. Ho pensato che per avere un aiuto immediato chiamare il 118 e la polizia e denunciare un abbandono sarebbe stata la strada più veloce». Lui dice che la relazione con la donna è finita sei mesi prima, che quella sera la donna lo ha chiamato chiedendogli di portare via il neonato frutto di una gravidanza a lui ignota. Il resto è cronaca: l’accusa resta e a febbraio l’esame del dna attesta la paternità. L’uomo esce di scena con una condanna a due anni di reclusione.La madre. Quattro giorni dopo l’arresto del macellaio, entra in scena la mamma biologica. A trovarla è la polizia. Vive a Modica, ha 41 anni e altri due figli: il maggiore nato da un matrimonio finito e la minore avuta dal macellaio con cui afferma di avere una relazione tranquilla pur vivendo in case e città diverse. «E’ un papà affettuoso e attento anche se non si cura dell’aspetto economico».
La madre rivuole il figlio
Traspare una quotidianità sofferta dalle parole della donna che diventa protagonista televisiva ricercata e mostra di sé l’immagine della mamma disperata che rivuole il figlio. «Mi sono accorta di essere incinta al quinto mese – spiega smentendosi – se l’avessi saputo prima, avrei abortito». Non può abortire, ma può nascondere la gravidanza come se rifiutarla potesse cancellarla. Invece, i mesi passano e il piccolo inconsapevole di non essere voluto, nasce. «Ero al lavoro e mi sono sentita male – dice la mamma nelle varie interviste – sono tornata a casa e ho partorito. Ero confusa». Era anche esperta, aveva già partorito due volte. «Ho telefonato al padre e gli ho chiesto di raggiungermi – continua – poi gli ho dato il bambino e gli ho chiesto di portarlo in ospedale: volevo accertarmi che stesse bene». Alla domanda del perché non sia andata anche lei in ospedale non solo per il neonato ma anche perché aveva bisogno di assistenza medica, preferisce non rispondere. Non c’è un corredino che aspetta il piccolo né lo consegna in un cullino, ritenendo che un sacchetto di plastica potesse essere una copertura adeguata. «Ho saputo del ritrovamento del bambino dai social la sera stessa – afferma – Sono andata in ospedale ogni giorno ma non ho mai avuto il coraggio di entrare. Avevo paura perché lui mi aveva detto che facendomi identificare rischiavo di perdere gli altri due figli».
Le incongruenze
Non si è accorta di essere incinta. E magari, può succedere che un corpo avvezzo alle gravidanze non manifesti segnali. Ma una donna non può ignorare il cuoricino che batte, i calci nel pancione seppur piccolo e coperto da grandi felpe. Lei volutamente lo ignora e lo nasconde a tutti. E nove mesi sono lunghi da passare. Fino al parto. Che ha le modalità di un’espulsione: da sola, in bagno e con la figlia piccola davanti alla televisione, diventa mamma per la terza volta. Il suo pensiero non va alla sua famiglia né ai soccorsi del vicino ospedale “Maggiore”. Chiama il padre: «Mi sento male, vieni subito». E lui corre. «Rimasi inebetito. Perché non me l’ha detto?» spiegherà ai giornalisti. Lei sotto choc, lui pure. E il bambino? «Stava bene, era tranquillo e non ha pianto» racconterà la puerpera. Non un abbraccio, una carezza, non una parola per il neonato. Lei lo consegna, lui lo butta. Poi cambia idea e chiama i soccorsi: non ha il coraggio di lasciarlo morire o forse qualcuno lo vede. Comunque quel sacchetto di plastica con una vita dentro non passerà mai dalle sue braccia. Lui è sposato, lei non lo dice. Secondo lei stanno insieme, secondo lui la relazione è chiusa da un pezzo. Passano giorni, mesi e la donna il figlio non lo cerca. La legge fa il suo corso. Lei afferma di non conoscere i termini per il riconoscimento. Si rivolge però a un avvocato e si costituisce parte civile per chiedere un risarcimento danni, che non ottiene, all’uomo contro il quale non avrà mai un moto di rabbia, quantomeno di risentimento o di dissenso, per avere trattato il figlio come spazzatura. Anzi, anche lei viene accusata di avere abbandonato il figlio in concorso. Ed è tuttora sotto processo.
La legge
Quando il Tribunale ha dato una famiglia al piccolo (decisione che ad oggi dovrebbe essere tecnicamente inappellabile nel best interest del minore), ecco che si sveglia l’istinto materno affogato in un silenzio durato circa 15 mesi. «Rivoglio mio figlio, una seconda possibilità non si nega a nessuno» dice in lacrime ai giornalisti e scrive in carta bollata ai giudici. Che in barba alle norme e convinti magari che i figli sono delle donne che li partoriscono revocano l’adozione. Il tira e molla legale rimbalza dal Tribunale dei minori all’Appello fino alla Cassazione. E continua fino a questi giorni in cui il piccolo ha compiuto tre anni e un decreto dice che Vittorio Fortunato deve essere strappato ai suoi genitori, gli unici che conosce, e restituito alla madre biologica che non ha mai visto e soprattutto che non lo ha mai voluto e che rischia attualmente una condanna. E il padre? «Chiama la figlia ogni giorno – dice lei – ma noi non ci parliamo». E’ questa la famiglia che aspetta Vittorio Fortunato. E gli affidatari nonché unici genitori del bimbo dalla nascita ai tre anni? Non hanno titolo per parlare. E il tutore legale? Unica voce a difesa del piccolo. E Vittorio Fortunato? Troppo piccolo per parlare. In teoria la legge lo protegge e i giudici ritengono di sapere cosa è meglio per lui. In realtà nessuno gli chiede e si chiede cosa vuole. La risposta sarebbe scontata. E scomoda. Bisognerebbe spiegare che i figli dalla pancia escono ma è dal cuore che nascono, crescono e restano. E forse rileggere tante, troppe sentenze.