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Catania tatuata sul petto: «Ho aperto ora il mio ristorante perché credo nella mia città»

Manuel Tropea, 29 anni, chef autodidatta: «Sono nato a Picanello e ne vado orgoglioso»

Di Carmen Greco |

Manuel Tropea è un catanese di nuova concezione. Di quelli che con la crisi post pandemica, lo shock energetico, i negozi che chiudono e i ristoratori che piangono per le bollette, ha deciso di aprirne uno tutto suo. Proprio adesso.  Ma era il suo obiettivo da sempre, da quando, ragazzo, andava a bussare alle porte delle putìe di via Plebiscito per offrirsi di preparare caponata e arancini. Non ha studiato da cuoco, in realtà non ha studiato molto quando c’era da studiare. «Ho fatto le scuole dell’obbligo poi sono andato all’Alberghiero di via Anfuso ma dopo 6 mesi mi hanno buttato fuori perché ero “tosto”, irrequieto, esuberante. La scuola mi piaceva solo quando c’era da cucinare. La mia vera formazione è avvenuta all’ente professionale regionale Cnos-Fap (l’aggiornamento professionale dei Salesiani ndr) che organizzava stage formativi nelle aziende, all’Alberghiero si faceva poca pratica, dopo 6 mesi ancora ci “raccontavano” la pasta al pomodoro, al corso di formazione in 6 mesi facevo la lasagna, dalla pasta fresca al ragù».   

Precedenti in famiglia? «Zero. Mia mamma casalinga non è tanto brava a cucinare, mio padre è un operaio, però sono i principali finanziatori dei marchi che vendono piatti pronti (ride ndr), ma a loro devo tutto».

Pandemia, guerra, crisi energetica, e lei apre un fine dining in questa città. Come si fa a crederci ancora? «Lo, so me l’hanno detto tutti, “Ma che fai, non ti capiranno…” ma io penso che da momenti come questi dobbiamo trarre qualcosa di positivo. La pandemia ci ha dimostrato che l’imprenditore medio catanese non ci sa fare. Io ho lavorato in ristoranti che incassavano 5/6000 euro al giorno, va bene che la pandemia era inaspettata, ma quei ristoranti hanno chiuso perché non avevano portafoglio, non erano sani economicamente. Il catanese è così: se guadagna 5000 euro si deve comprare due macchine di lusso e fare la bella vita. Io l’ultima vacanza che ho fatto con la mia ragazza è stata tre anni fa e sono mesi che non esco a mangiare una pizza. Ma sono sacrifici che ho fatto, che faccio, perché ho una passione, un obiettivo».

Cosa vuol dire per lei cucinare per gli altri? «Un modo di essere che mi ha inculcato mia nonna Giovanna. Mi faceva la pasta con il ragù (che poi era ragù con la pasta) e le cotolette che uscivano fuori dal piatto. Scherzando le dicevo che sembravano cotolette di brontosauro, ancora oggi mi chiedo chi fosse il suo macellaio di fiducia. Quando lavoravo come chef a Torre del Grifo spesso andavo a casa sua per riposarmi un po’ dopo la mattinata impegnativa e la prima domanda che mi faceva aperta la porta era “Manciasti?”Quanto pagherei per risentire quella domanda…».

L’inizio è stato da lavapiatti? «Più che lavapiatti ho fatto il commis di cucina, pelavo patate, pulivo cipolle… Poi Franco Raneri lo chef del Mazzarrò Sea Palace, persona umile, mite, eccentrica, ma molto determinata mi prese per uno stage di un mese e mezzo e dopo sono rimasto a lavorare con lui. Vedevo quelli più bravi di me e mi dicevo “Devo arrivare a quel livello”».

Lei si definisce “malato” di Catania, lo sa che è una patologia grave? «Pulisco tutti i giorni il marciapiede davanti al mio ristorante, ma dobbiamo credere in Catania e la Sicilia tutta. Abbiamo una grande responsabilità, siamo la terra di Verga, di Bellini, di Peppino Impastato, dobbiamo essere questa terra, non quella di un’Amministrazione comunale che permette le montagne di spazzatura per strada o le macchine in doppia fila…».

Però con questo siamo costretti a convivere… «Ci sono le persone in controtendenza. Io ho creduto e ho investito in questo progetto. Certo, una nuci in un sacco non fa sgrusciu, ma magari oggi apro io e domani un altro e dopodomani un altro ancora. Tanti ragazzi di Picanello, il mio quartiere dove sono nato e di cui vado orgoglioso, mi dicono "Voglio farlo anch’io quello che hai fatto tu!" e io rispondo “Fallo!”. Catania non può essere quella che vediamo oggi. Catania è il Duomo, l’Etna, la Trinacria, il Catania…».

Tutte cose che lei ha tatuate sulla pelle…  «Vengo da una famiglia catanese, mio padre e mio nonno tifano per il Catania, ce l’ho tatuato sulla schiena. Oggi calcisticamente stiamo risalendo la china, mi auguro che la città segua l’esempio della squadra. Catania è come una bella ragazza, che però si affaccia sconsolata dai cortili della Fiera, ma è pronta alla sua “nisciuta” e aspetta alla finestra… un po’ come S. Agata, che aspetta un anno per uscire. Alla stessa maniera Catania aspetta la pulizia, le telecamere in strada, i comportamenti civili».

Ricette da adottare? «Piazzare telecamere dappertutto (e si darebbe lavoro a tanta gente solo per fare questo) e fare cassa con le multe a chi butta le schifezze in giro che poi sono pure quelli in giacca e cravatta».

Il piatto di cui va più fiero? «Per adesso il raviolo con la carne di cavallo, siamo riusciti a rendere la stessa succulenza del panino».

I suoi colleghi si lamentano di non trovare personale, lei come ha fatto? «Con me lavorano due persone fisse e una che viene saltuariamente. Li ho trovati subito. È vero che il reddito di cittadinanza ha un po’ “scremato” la manovalanza, diciamo così, ma dipende sempre da quanto paghi le persone. Quelli che vogliono veramente fare questo lavoro, li trovi».

Cos’è rimasto di quel ragazzino di Picanello che guardava in tv la “Prova del cuoco”? «La fame, la grinta, la tenacia, il non volersi sentire ghettizzato, e anche la rivalsa nei confronti di quella “Catania bene” che tutt’oggi alza un sopracciglio se vede al mare i miei tatuaggi e poi mi fa i complimenti quando viene a sedersi ai miei tavoli». Lei ha aperto da due mesi. Se verranno a chiederle il pizzo che farà? «Come vengono se ne vanno. La mia è sempre stata una famiglia onesta. Non siamo nababbi, facciamo una vita da lavoratori, una vita normale di gente perbene. Non abbiamo mai venduto un voto per una busta della spesa e non siamo mai scesi a compromessi, anche nei momenti difficili».

Da qui a 10 anni come si vede? «Con il ristorante "Concezione" diventato un punto di riferimento per chi viene a Catania. Vorrei che la gente prendesse un aereo per venire qui, in via Verdi, a mangiare da me. E poi mi piacerebbe un giorno che il Comune mi premiasse con la candelora d’oro. Madonna come sarebbe bello, un sogno…».

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