Da simbolo dell’Isola a oro di Sicilia: così una coppia ha trasformato il fico d’India

Di Maria Ausilia Boemi / 30 Dicembre 2020

Una coppia in affari, con la voglia di promuovere il Made in Sicily, anzi, tra i primi a credere nella forza evocativa dei prodotti isolani: lei, Daniela Farchica, è una 34enne laureata in Economia di San Cono; lui, il marito 42enne Luca Santanocito, è un ragioniere di Paternò. Dopo avere per anni commercializzato prodotti siciliani, hanno deciso di valorizzare uno dei simboli della Trinacria, peraltro eccellenza di punta di San Cono: sua maestà il ficodindia. Consapevoli però che il prodotto fresco, con la sua stagionalità, non era sufficiente per fare compiere il salto di qualità.

«Dopo il diploma – racconta Luca Santanocito – ho vissuto 6 anni a Milano, dove ero direttore commerciale per una azienda di informatica. Ma avevo in mente l’idea di realizzare qualcosa con i prodotti della nostra terra che all’epoca, al di fuori della Sicilia, erano soltanto le classiche paste di mandorla: per questo sono rientrato in Sicilia e ho iniziato a occuparmi di commercializzazione di prodotti della Trinacria». Nel frattempo, Santanocito 8 anni fa conosce Daniela Farchica, che poi sarebbe diventata sua moglie, che gli chiese se poteva seguire uno stage nella sua impresa: e galeotto, fra i due, fu lo stage.

A Catania quindi la coppia si occupava di commercializzazione di prodotti siciliani. «Ma 5 anni fa abbiamo avuto la felice idea di trasferirci a San Cono e ricominciare una nuova vita. Lì, ovunque ti giri vedi fichidindia. La domanda che ci siamo posti è come mai non ci fosse nulla di trasformato, perché un prodotto acquisisce valore nella misura in cui viene trasformato. Basti pensare agli esempi delle olive trasformate in olio e dell’uva trasformata in vino. Oltretutto, il ficodindia è un prodotto stagionale, quindi con una produzione limitata alla sola stagione e non per tutto l’anno».

Ecco che così i due coniugi, con un investimento iniziale minimo e utilizzando un garage riattato, decidono di provare a valorizzare il ficodindia trasformandolo in confetture, paté, pesti, liquori che consentissero una maggiore e continua penetrazione sul mercato. Ma per fare ciò, occorreva differenziarsi e offrire più prodotti: «Quando si crea un’azienda e un mercato nuovo – spiega Santanocito -, se si parte da zero, secondo la nostra visione bisogna avere una gamma di prodotti abbastanza ampia. Quindi da una parte abbiamo cominciato a dividere le colorazioni di frutto creando confetture di fichidindia a polpa bianca, a polpa gialla e a polpa rossa. Poi, siccome la marmellata o la confettura ormai sono utilizzate per abbinamenti speciali nella cucina che strizza l’occhio al gourmet, abbiamo pensato di realizzare una confettura di fichidindia con mandorle tostate, una con uvetta e brandy, una di fichidindia al peperoncino, una al caffè e una con gocce di cioccolata».

Ma ancora non era sufficiente per il grande salto, secondo i coniugi: «Il ficodindia non è composto solo dal frutto, ma si possono utilizzare tante altre parti delle piante, come le pale (cladodi) che, possedendo proprietà nutrizionali importanti, in Messico sono vendute al mercato come se fossero pomodori. Abbiamo allora iniziato a fare dei test per realizzare una confettura dai cladodi, ma il sapore non era gradevole. Tra un assaggio e l’altro ci siamo resi conto che le pale erano più un prodotto salato che dolce, per cui abbiamo provato a fare un paté e poi anche il pesto. I fiori, invece, li usiamo per i decotti: sono infatti uno dei rimedi naturali più efficaci contro i calcoli renali. E ora stiamo mettendo in produzione un amaro realizzato con pale e fiori di fichidindia». Prodotti ai quali si aggiunge anche «uno snack di vari gusti, tra cui al ficodindia: in una confezione abbiamo inserito una confettura monodose, 5 crostini, un cucchiaino e un tovagliolo».

Ed è proprio questa varietà di dolce, salato e di prodotti diversi che ha spalancato ai due coniugi siciliani le porte di Gdo, Normal Trade, Horeca, Super Horeca e Vending, oltre che ovviamente internet: «Noi vendiamo un progetto, non un prodotto. I nostri fornitori hanno sempre creduto in noi, la gente apprezza le idee brillanti e, di conseguenza, nonostante le difficoltà e le perdite di tempo, siamo riusciti a creare la nostra azienda». Un progetto che prevede dunque l’utilizzo anche di quelli che fino a poco tempo fa venivano considerati “scarti”: «Usiamo soprattutto gli scarti, il business si fa valorizzando ciò che butteresti, ciò che in passato non è stato valorizzato. Dobbiamo capire le esigenze dei clienti, capire quale prodotto tiri di più, essere molto dinamici nell’impostazione del nostro lavoro e delle nostre idee».

Una piccola realtà imprenditoriale che produce circa 2.500 pezzi al giorno (ma potrebbe arrivare anche a 3.500-4.000) e che, oltre ai due coniugi, dà lavoro a 3-4 persone. Ma che pensa in grande, anche se l’attuale pandemia ha costretto a “congelare” momentaneamente alcuni progetti, «come la creazione di un’altra struttura e l’ampliamento della nostra azienda dagli attuali 200 mq a 500».

La pandemia è ovviamente soltanto l’ultimo degli ostacoli che i coniugi Santanocito-Farchica hanno dovuto affrontare: «La maggiore difficoltà per noi che abbiamo scelto di lavorare con la grande distribuzione è la burocrazia. Prima che parta un contratto passa minimo un anno-un anno e mezzo e all’inizio si deve considerare quell’arco temporale in cui si devono rispettare le tempistiche altrui. Sul prodotto in sé e per sé, invece, nessun tipo di difficoltà perché il ficodindia è l’icona della Sicilia, è l’equivalente di D&G nella moda, è un prodotto che ha fascino».

Nessun rimpianto, per Santanocito, nonostante le difficoltà: «Tutto è conseguenza di tutto, nella vita bisogna fare esperienze, il mercato e il mondo non aspettano nessuno, quando qualcosa funziona si porta avanti e non ci possono essere rimpianti finché siamo qui a fare progetti e prodotti nuovi». Neanche di essere tornato in Sicilia da Milano: «Ci vorrebbe in realtà un 50% Sicilia e un 50% Milano per raggiungere un equilibrio. Lì ti abitui a ritmi e stili di vista diversi, ma in Sicilia siamo in paradiso. All’inizio è dura passare da un regime di vita a un altro, ma la vita va vissuta, bisogna parlare tanto con sé stessi e capire che ci sono cose che possono funzionare e altre no, accettare le vittorie e le sconfitte e guardare sempre il lato positivo delle cose».

Ma qual è, secondo l’imprenditore Santanocito, il segreto del successo? «Per noi si riduce in una parola: l’amore, perché uno deve amare ciò che fa altrimenti alla prima difficoltà ci si tira indietro. Poi la mentalità, cioè la visione del business che è importantissima perché ci sono prodotti che se li faccio io magari non hanno nessun valore e se invece li fa un altro hanno successo perché qualcuno ci ha creduto di più, ha amato quel prodotto più degli altri. E poi l’atteggiamento: oggi si opera in un mercato molto difficile, perché ci sono migliaia di prodotti e milioni di persone che cercano prodotti nuovi, ma alla fine quelli che sfondano sono sempre i soliti, tranne qualche sporadica eccezione. Bisogna quindi mantenere sempre un atteggiamento positivo, essere flessibili, dinamici, stare attenti ai cambiamenti, ascoltare tanto e lavorare di immaginazione e creatività». Mettendo insieme innovazione e tradizione: «Non dobbiamo inventare nulla, siamo arrivati in un’era in cui molte cose sono state già fatte, quello che possiamo fare è cercare di migliorarle o presentarle in chiave diversa».

Ed è in fondo quello che consiglia ai giovani: «Consiglio di fare qualcosa per cui essere ricordati nella vita, ovviamente in maniera positiva. Come dicevo prima, tutto ciò di cui disponiamo ci è stato donato da chi ha vissuto prima di noi, penso quindi che tutti noi abbiamo il dovere di fare qualcosa per mantenere queste cose ma soprattutto per migliorarle. Purtroppo a volte i valori si perdono, però tutti abbiamo l’obbligo di contribuire alla crescita non solo di noi stessi ma anche degli altri».

E non ha dubbi Santanocito su cosa manchi alla Sicilia per riuscire a fare il salto di qualità economico: «Manca l’unione, la capacità di fare rete. Qui in Sicilia scontiamo sempre un po’ di gelosia e invidia nella gestione dei rapporti e delle aziende, mentre invece secondo me la Sicilia potrebbe essere l’azienda più grande al mondo sia per ciò che produciamo che per la qualità. Il problema è che non si riescono a creare dei consorzi. E poi si considerano quelli siciliani prodotti solo di nicchia. La nicchia è il più grosso problema della Sicilia: come può essere mai di nicchia un prodotto che costa 3 euro? Né ha valore il discorso che i prodotti siciliani tirano tanto all’estero: già è difficile portare avanti un marchio in Sicilia, figuriamoci andare all’estero. Dobbiamo dunque fare rete, perché unendoci siamo straordinari, mentre un pezzetto alla volta qualcuno emerge, qualcuno cade, qualcuno resta uguale per tutta la vita e non si va da nessuna parte».

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