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Fra Catania e Venezia i gioielli “mobili” realizzati da due catanesi doc

Di Carmen Greco |

Catania – Le perle in smalto vitreo di Murano e la ceramica di Caltagirone, la produzione industriale e l’artigianato, la forma del quadrato – segno di stabilità per eccellenza – messa in discussione dalla “precarietà” del movimento, la fragilità del vetro filato e la durevolezza della minuteria da ferramenta. È tutto un gioco di imprevedibili incastri e di (voluti) contrasti quello inventato da Isabella Attanasio e Marina Migneco, due catanesi doc, la prima grafic designer, la seconda architetto, creatrici di gioielli “squilibrati” che sfidano la convenzionalità delle forme.

Anelli quadrati che si muovono e che “suonano” indossandoli, orecchini, ciondoli, bracciali che con piccoli giochi di forza fra leve, cambiano a seconda dei movimenti del corpo. “Microarchitetture” che, oggi, si trovano nei book shop di importanti istituzioni culturali, dalla Triennale di Milano alle Scuderie del Quirinale, dai Giardini della Biennale di Venezia a Berlino. I loro gioielli erano pure indosso alla protagonista del film di Guido Chiesa “Ti presento Sofia”, uscito l’anno scorso. Un progetto che “si muove” sulla direttrice Catania-Venezia (dove vivono rispettivamente Marina Migneco e Isabella Attanasio) che ad un certo punto della loro vita professionale hanno sentito il “richiamo” della manualità.

Da sinistra Marina Migneco, Isabella Attanasio

Il sacro fuoco creativo è nato dall’amore comune per un’artista costruttivista dei primi del Novecento El Lissitzky «che ci ha sempre affascinato, lui pensava a questo disegno bidimensionale che si trasformava per dare vita ad oggetti del vivere quotidiano. Al centro Pompidou di Parigi c’è tutto un ambiente a lui dedicato con quadrati, sfere, oggetti strani che si compongono e creano uno spazio. Ricorda Mondrian, ricorda Malevic le avanguardie russe, in fondo lui è stato anche l’unione delle nostre due attività, architetto e grafico». L’avventura è nata nel 2015 quando entrambe (che per inciso sono cugine) hanno sentito l’esigenza di mettersi in gioco. «Ci siamo dette “mi piacerebbe lavorare con le mani”, basta computer. A Venezia avevo avuto un primo approccio con il vetro filato veneziano – racconta Attanasio – quindi con la fornace e i maestri che lo lavorano. Da quel momento abbiamo cominciato a realizzare materialmente questi oggetti. Non essendo orafe, però, abbiamo utilizzato anche prodotti industriali finiti, come un tubo comprato in un negozio di metalli, tagliato a sezione quadrata, ricavandone poi tutti multipli e sottomultipli delle sezioni quadrate e rettangolari. Roba, comunque, di produzione industriale, come la minuteria da ferramenta, nobilitata con la placcatura oro fino a tre micron».

Ecco allora l’ibridazione fra lavorazione a mano e in serie, l’utilizzo degli “alzaporta” di ferro con le tessere di vetro dei micromosaici. «Abbiamo ripreso la tradizione antica della perla veneziana fatta fare a mano da una coppia di artigiani. Abbiamo messo insieme la produzione industriale con l’abilità degli artigiani fra Catania e Venezia seguendo un’estetica di aspirazione modernista ma di sapore locale». A Caltagirone, per esempio, hanno fatto realizzare delle “perle” di ceramica con la finitura e le decorazioni tipiche, ma nelle loro creazioni c’è anche la pietra lavica e il caolino, quest’ultimo realizzato da un’altra artigiana catanese, Manuela Di Maria. «C’è molta manualità in quello che facciamo – sottolinea Marina Migneco – ma la struttura è molto rigorosa, ci piace questo contrasto. L’idea del quadrato per gli anelli ci consente il movimento, non a caso si chiama “muv”. Il corpo mette in moto e aziona il gioiello, traducendo la forma in movimento e suono, in oggetto vissuto».

Dietro al gioiello finito, c’è una lavorazione che coinvolge diverse figure professionali. Si parte dalla sezione del tubo, poi i pezzi vengono inviati a Vicenza (uno dei luoghi d’eccellenza dell’arte orafa italiana), dove viene realizzato il bagno galvanico in ottone, bronzo, rutenio, per poi ritornare tra le mani di Isabella e Marina le quali (in due piccoli laboratori a Catania e Venezia) assemblano manualmente, pezzo per pezzo. Le diverse finiture con vetro filato di Murano, perle in smalto vitreo, le tessere di micromosaico della storica fornace Orsoni di Venezia, le sfere in ceramica di Caltagirone, fanno il resto. È chiaro che per arrivare a creare questi microingranaggi, è stato necessario anche “studiare”. «Abbiamo fatto un micro-corso intensivo per la lavorazione dei gioielli a Padova dove siamo venute a conoscenza della storica scuola orafa di Mario Pinton con allievi come Francesco Pavan, Graziano Visentin e Giampaolo Babetto che utilizzano il gioiello non come un oggetto estetico di puro ornamento, ma come una scultura, una composizione».

Un lavoro che in costante evoluzione. «È un continuo sperimentare. La partenza è stata il vetro, poi si va avanti. Abbiamo avuto ottimi riscontri – dicono con un pizzico di stupore -. Prima a Venezia con le “Stanze del vetro” (uno spazio espositivo permanente sull’Isola di San Giorgio Maggiore a Venezia, dedicato allo studio e all’esposizione delle forme moderne e contemporanee dell’arte vetraria della Fondazione Cini) dove le nostre creazioni sono piaciute moltissimo. Abbiamo visto che c’è un pathos siculo che “passa” attraverso i nostri oggetti». Inutile chiedere quanti pezzi realizzino in un anno o quanto ci voglia a creare un gioiello. «In realtà non c’è un tempo per la realizzazione, non siamo in grado di dirlo – sostiene Marina Migneco -, perché è un processo continuo, non sappiamo quanto ci voglia a fare un ciondolo, non l’abbiamo mai “misurato”. Riusciamo sicuramente a soddisfare le richieste, possiamo avere periodi intensivi in cui ne facciamo venti in un giorno, o uno solo». Ciò che detta i tempi della “produzione” è, semmai, la logistica. «Venezia ha il problema dell’acqua – osserva Isabella Attanasio – la merce che deve arrivare a Venezia a volte ritarda, e perdere un giorno per noi è una cosa gravissima, poi devi “inseguire” l’artigiano che ti fa la perla di vetro o chi ti realizza altre finiture. Loro sperimentano con te, spesso non sono pronti perché non hanno mai fatto queste cose, quindi c’è una sorta di adattamento reciproco in cui impariamo assieme».

I “moduli” che poi vengono assemblati per dare vita al gioiello completo sono realizzati con delle microfusioni e alcuni sono prodotti a Milano, lo smalto vitreo, invece, viene realizzato dai maestri di Murano. «Noi andiamo lì e li scegliamo uno per uno, il colore, la forma, spieghiamo come dev’essere fatto, “lamato” su tre lati, della misura esatta per essere inserito nella struttura di metallo… Ci abbiamo impiegato due anni per arrivare alle forma che volevamo. La progettazione è stata veloce, poi c’è voluto il tempo delle necessità tecniche». Artigiane, artiste, creative? «Bah, non sapremo autodefinirci, anche perché il nostro non è un impegno definitivo. Noi continuiamo a svolgere rispettivamente le nostre professioni». Di sicuro non è né un passatempo, e tantomeno un hobby. «Assolutamente no, non è mai stata questa la connotazione – precisa Marina Migneco – ma l’amore per realizzare qualcosa. Ci piace farlo e non possiamo farne a meno».

Twitter: @carmengreco612

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