7 dicembre 2025 - Aggiornato alle 18:19
×

La tenacia di una donna sotto il camice bianco

Marzia Mignosa ha saputo trasformare una condizione di partenza sfavorevole in una straordinaria testimonianza di tenacia e di passione

Silvio Breci

11 Luglio 2025, 14:08

Marzia

Nata nel 1969 a Siracusa con una diagnosi che per molti sarebbe potuta suonare come una condanna, paralisi cerebrale infantile, Marzia Mignosa ha saputo trasformare una condizione di partenza sfavorevole in una straordinaria testimonianza di tenacia e di passione. Laureata in Medicina e Chirurgia all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma e specializzata con lode in Neuropsichiatria infantile, ha maturato un lungo percorso professionale in diverse città italiane e il suo curriculum è ricco di esperienze cliniche, corsi di perfezionamento e master nei campi dell’autismo, dei disturbi del comportamento e dell’epilettologia pediatrica. Ha sempre unito alla competenza medica una profonda capacità di ascolto umano e psicologico. Fin da bambina ha scelto di non lasciarsi definire dalla sua disabilità e ha affrontato la vita con il coraggio silenzioso di chi sa che ogni piccolo traguardo vale più di mille parole. La sua storia è un inno alla resilienza, alla conoscenza e all’impegno verso i più fragili. Oggi è una professionista stimata, una donna che ha saputo trasformare la sua fragilità in cura, la sua fatica in ascolto, il suo dolore in comprensione.

Dottoressa Mignosa, ci porterebbe dentro i ricordi della sua infanzia? «I ricordi della mia infanzia sono belli. Però pian piano cercavo di capire perché camminavo male e perché la gente mi guardava stupita. Così mi sono raccontata la storia della cicogna ubriaca che aveva ricevuto il compito di portare una bambina al nord Europa. Ma non ricordava dove: Svezia o Norvegia? Boh. Così mentre stava attraversando l’arida Sicilia, sui cieli di Siracusa si è scontrata con un altro volatile. Allora mi ha fatto cadere e mi sono fatta tanto male, ma sono ancora qui. Questo è il modo in cui da bambina spiegavo a me stessa le difficoltà. Mi piace pensare ancora oggi a questa storia. Nonostante sappia che la realtà è ben diversa».

Come è nata la decisione di diventare medico, e in particolare neuropsichiatra infantile? «A 12 anni, un pomeriggio d’estate, vidi un programma in cui si parlava di psichiatria infantile. Fu un colpo di fulmine. Capii chiaramente che quella era la mia strada, il futuro che volevo».

Il suo curriculum è ricchissimo: dalla laurea alla specializzazione fino ai master e ai corsi di perfezionamento. Come è riuscita a conciliare tutto questo con le sue difficoltà motorie? «Il curriculum è importante perché sono sempre stata curiosa e perfezionista. Non ero soddisfatta, ad esempio, dell’esame di genetica all’università, così ho approfondito l’argomento da adulta con un master in genetica forense».

Ha lavorato a Roma, Palermo, Como, Piacenza. Qual è stata l’esperienza più formativa? «Dopo la specializzazione, a Siracusa mi offrivano solo quattro ore in un centro privato. Decisi allora di partire. Avevo paura, ma anche la certezza di fare il lavoro che sognavo. Anche l’esperienza difficile di essere mandata a Noto appena tornata nella mia città mi ha lasciato il segno. Ma sono ancora qui».

Oggi lavora a Siracusa. Come ha vissuto il ritorno nella sua terra d’origine? «Purtroppo ho ancora conti in sospeso con questa città. Non mi vergogno a dirlo. Non mi ha dato la possibilità di nascere bene: ho avuto un’asfissia perinatale. Questo non si dimentica».

Come è cambiato nel tempo l’approccio ai bambini con disturbi neuropsichici? «Oggi si ascolta di più, si mette al centro il minore e la sua famiglia. La plasticità cerebrale è alla base di tutte le terapie. Ricordo che da piccola andavo all’Aias per le terapie. Non sopportavo quel nome: “Centro spastici”. Ricordo che la fisioterapista parlava con altri mentre io facevo esercizi. La odiavo. Quelle esperienze mi aiutano oggi a non commettere lo stesso errore. Essere, come sono solita dire, da entrambi i lati della barricata mi aiuta ad aiutare meglio».

Quanto conta l’empatia nel suo lavoro? «Tantissimo. Essere stata da entrambe le parti - paziente e medico - mi permette di capire davvero cosa prova un bambino. Per essere vista come adeguata ho sempre dovuto fare il doppio, arrampicarmi sugli specchi. A volte sono scivolata, altre volte ce l’ho fatta».

Cosa rappresenta per lei la parola “resilienza”? «È una bella parola, ma non è semplice viverla. A volte penso di non averne più. Poi vado a comprarne un altro po’ - diciamo così - e vado avanti. Prendersi un po’ in giro, ogni tanto, aiuta».

Cosa direbbe oggi alla “Marzia bambina” che sognava un camice bianco? «Le direi: continua a sorridere. Ti voglio bene».

Che messaggio darebbe ai giovani che si sentono ostacolati nel realizzare un sogno? «Bella domanda. Non è facile, ma si può fare quasi tutto se lo si vuole davvero».

Qual è il suo modo per ritrovare forza nei momenti difficili? «Con una tavoletta di cioccolato al latte con nocciole intere. E con una nuotata».

Cosa ha significato per lei diventare medico, nonostante tutto? «Era il mio sogno da bambina. Lo rifarei? Sì, mille volte. Anche se a volte vengo superata da chi fa il medico solo per tradizione familiare o per soldi. Quando entrai a Medicina sognavo l’Africa. Mi ritrovai invece all’Ospedale Sant’Anna di Como, che mi ha formato profondamente. Oggi lavoro a Siracusa, in condizioni diverse. Devo spesso scrivere mail e Pec solo per ottenere ciò che mi spetta. A volte la stanchezza mi butta a terra - e cado anche fisicamente, aggiunge sorridendo - ma poi mi rialzo. E so di essere fortunata: ho realizzato il mio sogno. E sento che i miei pazienti e le loro famiglie vedono in me qualcosa in più».