Il personaggio
Lorenzo Urciullo, il Colapesce della musica che vive a Milano ma scrive in Sicilia: «Questa terra mi ha fatto arrabbiare però la amo»
Compositore e polistrumentista, meglio conosciuto con il duo Colapesce e Dimartino, ha firmato la colonna sonora del film "Iddu- L'ultimo padrino" e con questa è candidato al David di Donatello
Lorenzo Urciullo in arte Colapesce è una delle realtà musicali italiane più interessanti e sofisticate degli ultimi vent’anni. Cresciuto a pane e cantautorato, è sempre stato sospeso tra la musica italiana e quella internazionale con un occhio particolare al mondo indie, riuscendo così a creare un stile originale in cui il pop si sposa senza stridere con la musica elettronica, rock, free jazz mettendoci dentro anche echi letterari. Fortemente legato e influenzato dalla sua terra, non è un caso che abbia scelto il nome di Colapesce come il protagonista della leggenda siciliana che racconta di Nicola, conosciuto come Cola, ragazzo prodigio che sapeva nuotare come un pesce e si fece terza colonna per reggere la Sicilia. Con una laurea in tasca in Scienze della Comunicazione, la sua scrittura è libera, intrisa di figure retoriche e ha una cura certosina negli arrangiamenti. Il 30 marzo “Iddu – L’ultimo padrino” diretto da Antonio Piazza e Fabio Grassadonia, è approdato su Sky e Now. Il cantautore, compositore e polistrumentista ne ha firmato la colonna sonora e con questa è candidato al David di Donatello.
Urciullo, partiamo proprio dalla candidatura al David. Contento?
«È stata una candidatura inaspettata e mi ha reso molto felice. Ci ho lavorato un anno. Ho iniziato a scrivere prima ancora del girato. È stato un lavoro lungo, di ricerca, anche complesso».

Il film cerca di smitizzare la figura di Matteo Messina Denaro attraverso una storia liberamente ispirata ad una vicenda che vede coinvolto il boss (Elio Germano) e Catello Palumbo (Toni Servillo), politico condannato per concorso esterno in associazione mafiosa che viene avvicinato dai servizi segreti. Come ha lavorato?
«Comporre per un film è diverso dallo scrivere per un disco, anche i tempi sono diversi. La complessità è stata trovare un equilibrio musicale per non mitizzare il personaggio di Matteo Messina Denaro. Per Catello ho scelto un tema pomposo, ironico e amaro. Mi sono ispirato al cinema italiano degli anni ’70, penso a Elio Petri o allo stesso Ennio Morricone. Per il tema di Messina Denaro ho lavorato a sottrarre. Volevo che ne venisse fuori il carattere narcisista, ma anche il senso di confusione organizzata e smarrimento. Mi sono reso conto quanto la musica nel film possa influenzare e veicolare un messaggio diverso».
Viene spesso narrata una Sicilia legata alla mafia. “Iddu” non mitizza ma anche lei e Antonio Dimartino ne “La primavera della mia vita” avete raccontato una narrazione diversa.
«”Iddu” è intriso di grottesco. Smonta il personaggio mafioso stereotipato. I registi hanno indagato il lato più oscuro, intimo, psicologico, anche più ridicolo. Io e Antonio abbiamo smontato gli stereotipi attraverso l’ironia come la signora che vendeva nel catalogo l’esperienza mafiosa».
«La malvagità appartiene all’uomo. Si muove di giorno. La notte nel buio se ne sta. È una stella». Con questa ritorna alla sua scrittura.
«Sì. A metà della sceneggiatura della prima stesura avevo appuntato: “la malvagità appartiene all’uomo” partendo dalla riflessione che forse l’unico modo per cambiarla è accettare che appartiene all’essere umano. Non era prevista una canzone inedita per il film infatti fino ad uno degli ultimi montaggi il pezzo non c’era. Dopo averlo sentito, mi hanno fatto questo ulteriore dono».
“Per andare via ci vogliono gli euro e un filo di rabbia” canta. È stato mai arrabbiato con questa terra?
«Spesso. La Sicilia ti fa arrabbiare e infatti ad un certo punto della mia vita ho deciso di andare via. Mi sentivo in una sorta di sabbie mobili. Provavo a cambiare le cose e non ci riuscivo o comunque ci provavo con enorme difficoltà logistica. Poi dieci anni fa ho firmato un contratto come autore e mi sono trasferito a Milano. Da quando sono andato via ho iniziato ad amarla di più. Adesso ho un rapporto più sano, prima era tossico. La guardo con la giusta distanza e in questo ultimo periodo sto rimettendo a posto la mia relazione con lei e sento il bisogno di ritornare spesso».
Qual è la prima cosa che fa quando mette piede in Sicilia?
«Vado al mare. Ad Ognina. Sento l’esigenza di andare nei luoghi dove sono cresciuto e che amo».
E quando è lontano cosa le manca?
«A parte il mare, che non è poco, il cibo, la luce, l’aria, la mia famiglia cui sono profondamente legato e il mio gatto che vive qui. Da un anno ho una casa mia, uno spazio con le mie cose e sto finendo un piccolo studio che mi servirà per lavorare. È vero che vivo a Milano ma scrivo quasi o esclusivamente in Sicilia. È un posto in cui ho esigenza di tornare, dove mi sento al sicuro per lavorare, per progettare mentre Milano è più una terra del fare. Quando ho prodotto vado lì e incontro editori, discografici».
I suoi testi sono intrisi di Sicilia. Solo per citarne una: “Pantalica” in cui sembra di sentire realmente l’odore del finocchietto selvatico.
«Scrivo in Sicilia ma poi sintetizzo a distanza. È come quando sei davanti ad un quadro e per goderlo meglio devi allontanarti e a quel punto ne capisci la complessità, le sfumature, la luce. “Pantalica” è uno dei luoghi della mia adolescenza. È uno dei pezzi a cui sono più affezionato. Non capita spesso ma è un brano scritto di getto. È come se quelle immagini, quei luoghi, li avessi radicati all’interno della mia memoria. “Calpesto del finocchietto e si apre a festa il mio naso”, sembra strano sentirlo in un canzone, ha dei difetti ma li ho lasciati così perché ogni parola è legata a qualcosa di ben definito».
Dal Premio Tenco per la miglior opera prima nel 2012 con “Un meraviglioso declino”, poi “Egomostro”, il concerto disegnato con Baronciani e infine il sodalizio con Dimartino. Se guarda indietro se lo aspettava?
«È stato un crescendo, un continuo divenire. Sono stato sempre nel fare e forse nel frattempo non me ne sono reso conto. Solo adesso che mi sono fermato sto realizzando che gli ultimi tre/quattro anni sono stati molto intensi. Solo con Antonio: il film, due dischi, una colonna sonora, due Sanremo, il tour con la band e quello con l’orchestra. Tante cose in un tempo ristretto e non abbiamo avuto il tempo di comprendere quello che stavamo facendo».

Siete sempre dell’idea di prendervi una pausa?
«È una pausa temporanea. Non ci siamo dati una scadenza. La nostra musica è nata sempre per una urgenza e così deve continuare ad essere. Eravamo stanchi. Non abbiamo avuto una vita al di fuori della musica e adesso è più urgente l’esigenza di fermarci, rigenerarci e trovare la forza di tornare a scrivere. Anche se in questi ultimi anni siamo stati parte dell’industria mainstream, la nostra scrittura non appartiene a quella logica. Non è il nostro stile. Quando scriviamo sia singolarmente che in duo non andiamo dietro ad una logica discografica ma personale».
Cosa c’è in cantiere?
«Ho tanto materiale ma non ho un’ idea precisa e mi va bene così perché volutamente non ho preso nessun impegno. Voglio che il processo sia naturale e non dettato da tempistiche legate al mondo discografico. Ho altri progetti legati alla sfera creativa come ad esempio la mia prima personale di fotografia “Doppia Uso Singola” alla galleria Patricia Armocida. Una selezione di 200 scatti racchiusi in tre nuclei: “Dus”, acronimo del titolo, con una catalogazione di arredi e oggetti all’interno di camere di alberghi in cui ho soggiornato durante i miei viaggi; “Teresa e Anna” che documentano la relazione simbiotica tra mia nonna e la mia prozia; “Giorni sfiniti”, serie legata alla Sicilia, ai paradossi che le appartengono e a visioni introspettive. Gli scatti sono in formato 20×20 cm, lo stesso formato delle cementine e 10×10 cm. Una sequenza temporale di oltre dieci anni, una selezione iconica tratta da più di 1800 fotografie».COPYRIGHT LASICILIA.IT © RIPRODUZIONE RISERVATA