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Marco Giarratana, lo “scièf” per caso che si racconta in un libro

Di Carmen Greco |

«Nel libro non ho voluto eccedere – precisa – ho cercato di essere me stesso quanto più possibile indipendentemente dalle mode e da come gli altri percepiscono questo mondo degli star chef. Di quello che fanno loro non m’interessa nulla, non seguo il gossip tra cuochi, per ultimo questa polemica da cialtroni sulla pizza di Cracco. Siamo l’unico Paese in cui la gente perde tempo a dibattere sull’interpretazione della pizza da parte di un cuoco, è assurdo. Però ci dà l’idea di quanto il cibo, in Italia sia culturalmente, anzi istericamente importante, per l’italiano medio».

Leggo uno dei tuoi antipasti: “Capesante marinate al saké e scottate, vellutata di broccoli e carote, riduzione di salsa teriyaki fatta in casa, guanciale croccante”. Se non è da chef stellato poco ci manca…

«Il mio lavoro è nato per caso e per una serie di circostanze, ma poi mi sono impegnato, ho trovato nella cucina un modo per esprimere la mia creatività. Da autodidatta ho fatto i miei studi, anche perchè facendo il cuoco a domicilio devo dimostrare la mia presenza a casa dei clienti che non solo vogliono provare un’esperienza diversa ma vogliono anche mangiare qualcosa che in giro non trovano. I miei piatti comunque sono riproducibili in qualsiasi appartamento, però dietro c’è una ricerca vera. Ci sono settimane che passo girando per botteghe, comprando e provando determinati prodotti. I miei piatti non sono casuali».

Perché raccontare la tua storia in un libro?

«Non mi sono proposto io, è stato Longanesi. Io non la ritenevo una cosa interessante, ma evidentemente non me ne rendevo conto. Quando poi ho cominciato a buttare giù delle idee ho capito che non volevo scrivere un romanzo di cucina ma parlare di un percorso umano interiore. Ho dovuto superare le incertezze della crisi e il problema del lavoro ma soprattutto ho dovuto gestire le mie ansie e le mie paure, il tema principale del libro è questo. Io nella realtà mi sono trovato a fronteggiare la paura di fallire, la paura di sbagliare, l’ansia da prestazione. Non è facile, da autodidatta, senza aver mai lavorato in un ristorante come cuoco, entrare in casa d’estranei che ti pagano e cucinare ai loro fornelli. Ci vuole anche un po’ di faccia tosta, quantomeno devi essere sprezzante del pericolo».

La clientela tipo?

Tra i 30 e i 40 anni, gente che lavora e che può permettersi, ogni tanto di spendere una determinata cifra».

I tuoi piatti cavalli di battaglia?

«Sono diventato abbastanza bravo con i risotti, ma di recente anche con gli sformatini vegetariani. Mi sto specializzando in diverse cose. A breve proporrò anche la carne».

Clientela solo a Milano?

«Principalmente, ma io mi sposto dovunque, basta che mi paghino il viaggio. Tra qualche giorno andrò a cucinare in Germania».

Cosa ti porti dietro della Sicilia nei tuoi piatti?

«Qualcosa c’è. A me piacciono tutte le cucine. Ovviamente, essendo cresciuto in Sicilia, ho un paio di piatti come la caponata di melanzane rivisitata e la parmigiana che faceva mia nonna che fanno parte dei miei menù tutto l’anno, poi dipende un po’ dalle stagioni. Appena arriverà l’estate riprenderò il risotto alla Norma che avevo già sperimentato l’anno scorso, ma non seguo un filone. Di solito quando mi chiedono che cucina faccio io rispondo “ad orecchio”».

Come la musica…

«Esatto tre anni fa ho scritto un disco andando “ad orecchio” su una tastiera, ho importato questo metodo anche nella cucina, mi lascio trascinare dalle suggestioni e dal momento».

La tua cucina a che genere musicale la paragoneresti?

«Al disco di una band che si chiama Cult of Luna, una band svedese, fa una musica molto pesante ma con parti molte rarefatte, quasi oniriche. Credo ci stia molto bene con i contrasti della mia cucina. Non faccio una cucina pesante, ma con sapori molto netti e molto contrastanti, ma digeribili».

Che mangia la sera uno scièf quando rientra a casa e non ha voglia di cucinare?

«Un hamburger di seitan pronto e una zuppa pronta. A volte apro anche una scatoletta di tonno con l’insalata in busta. È un luogo comune che uno chef mangi sempre cose ricercate».

Invece il piatto “madeleine”?

«La parmigiana di mia nonna. Poi quando vado a mangiare nei ristoranti ordino sempre piatti che per me sono fondamentali per capire se in quel determinato posto sanno cucinare o se si tratta di “fuffa”, ce n’è molta in giro».

E questi piatti sono?

«La “cacio e pepe” che è un piatto difficilissimo, e i piatti con il polpo, molti non lo sanno cucinare bene. Vado in incognito, pago il conto e me ne vado, non faccio come i blogger scrocconi che scrivono bene in cambio di una cena».

@carmengreco612

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