LA STORIA
Maria Rosaria Tropea, la “cacciatrice” di ricordi: «La memoria costruisce la nostra identità»
La ricercatrice dell'università di Catania si è da poco aggiudicata il prestigioso Premio Anna Kuliscioff 2024 per i suoi studi sull'Alzheimer
Alle bambole ha preferito le provette. A caccia di quel meraviglioso e ignoto meccanismo che cuce dentro di noi i ricordi, le tracce della nostra vita. La ricercatrice della memoria sorride sempre e ha un viso da bambina, gli occhi che brillano dietro a una “febbre” sconfinata. «La memoria costruisce la nostra identità, siamo quello che ricordiamo, che conosciamo, che abbiamo impresso dentro – dice – e quando i ricordi svaniscono, come accade con l’Alzheimer o in altre forme di demenza, perdiamo una parte di noi». Per questo Maria Rosaria Tropea, trentenne di Acireale, laureata in Medicina e ricercatrice di Fisiologia all’Università di Catania, da sempre si arrovella per svelare i meccanismi che muovono il nostro cervello, come si formano i nostri ricordi e perché si smarriscono.
Per i suoi studi sulla malattia di Alzheimer la ricercatrice si è da poco aggiudicata il prestigioso Premio Anna Kuliscioff 2024, un riconoscimento «alla dedizione e alla passione per la ricerca biomedica da parte di una giovane donna», come spiega il presidente della Fondazione, Walter Galbusera.
«Sono affascinata dal nostro cervello e soprattutto dal modo in cui si formano i ricordi a livello cellulare – spiega Maria Rosaria – studio il processo dal punto di vista fisiologico a quello patologico, da un cervello sano a uno malato, per cercare di capire cosa può portare alla malattia. La memoria ha un ruolo centrale nella nostra vita».
L’amore per la scienza
L’amore per la scienza è nato fin da bambina, «dalle videocassette di “Esplorando il corpo umano” – confessa ridendo – ho subito pensato che avrei studiato Medicina e i miei genitori mi hanno assecondata. All’università ho capito presto che mi interessava studiare il cervello, un mondo tutto da esplorare di cui conosciamo ancora davvero poco».
Ricevere il premio, racconta, «è stata una grande emozione. Tutto il mio percorso va in questa direzione, a partire dalla tesi di laurea, ma il premio è per tutto il laboratorio, lo studio si fa in team». La motivazione sottolinea che la sua ricerca «si è concentrata sul ruolo della proteina beta-amiloide e sulla interazione con i recettori nicotinici dell’acetilcolina alfa7, i nucleotidi ciclici e i recettori della dopamina D3. I risultati hanno chiarito importanti aspetti sul funzionamento della memoria e su potenziali nuovi bersagli terapeutici».
«Con l’aumento della vita media, malattie legate all’invecchiamento come l’Alzheimer sono sempre più diffuse – spiega la ricercatrice catanese – e comprenderne le cause diventa cruciale per sviluppare nuovi farmaci, tenuto conto che quelli disponibili al momento non sono efficaci L’Alzheimer, in particolare, è la forma di demenza più frequente e sembra essere causato da una combinazione di fattori genetici, biologici e ambientali che contribuiscono alla neurodegenerazione. Ad esempio la neuroinfiammazione, lo stile di vita, malattie metaboliche come il diabete o alterazioni dei lipidi. Sicuramente il principale fattore di rischio è l’età».
Le sue ricerche su cosa hanno puntato? «I nostri studi hanno proprio l’obiettivo di chiarire i meccanismi molecolari alla base della patologia. In particolare studiamo il ruolo della β-amiloide, proteina che aumenta nella malattia di Alzheimer. Noi abbiamo dimostrato che la stessa proteina β-amiloide, a basse concentrazioni, è anche presente nel cervello degli individui sani dove è addirittura indispensabile per la memoria. Normalmente si lega a un recettore chiamato alfa7 nicotinico dell’acetilcolina che, nei pazienti di Alzheimer non funziona o diminuisce. Visto che la la proteina beta-amiloide non può legarsi normalmente al suo recettore aumenta per cercare di compensare. Questo aumento però, nel tempo, diventa tossico creando un circolo vizioso e danneggiando la memoria. Quindi, l’accumulo della proteina potrebbe essere una risposta del cervello al danno e non la causa primaria della malattia. Queste scoperte forniscono una nuova chiave di lettura dell’Alzheimer, aiutando a spiegare perché molti approcci terapeutici mirati a ridurre la β-amiloide non hanno funzionato e rischiano di essere persino dannosi. Più che cercare di eliminare l’eccesso di proteina β-amiloide bisognerebbe ripristinare le sue funzioni».
Il dubbio e le domande
La ricerca nasce dal dubbio, dalle domande. «Ci sono tantissime cose che non conosciamo, si mette sempre tutto in discussione. Il mio lavoro – dice con entusiasmo – è un parco giochi! Ogni risposta apre un centinaio di domande nuove, ogni cosa che si scopre pone davanti interrogativi e ipotesi mai immaginate prima».
Tra i suoi modelli ci sono le grandi scienziate come Marie Curie e Rita Levi Montalcini, certo, ma anche «Brenda Milner, pioniera degli studi sul ruolo dell’ippocampo nella memoria», aggiunge. «La Storia ci ha regalato tantissimi scienziati e scienziate che rappresentano modelli di ispirazione. Ma i miei punti di riferimento personali sono coloro che hanno guidato il mio percorso, dalle prime esperienze durante l’internato di tesi in Medicina fino al dottorato di ricerca e oltre. Tra questi, un ruolo speciale lo ha avuto la mia mentore, la professoressa Daniela Puzzo. Non solo mi ha trasmesso solide competenze teoriche e tecniche, ma mi ha insegnato quanto siano fondamentali qualità come il rigore scientifico e la passione per il proprio lavoro e l’importanza della creatività nel cercare risposte innovative a problemi complessi. Ma soprattutto tanta forza di volontà e resilienza, perché spesso fai e rifai un esperimento senza ottenere il risultato sperato. Valori non solo essenziali per essere un buon ricercatore, ma anche per affrontare con determinazione e fiducia le sfide che la scienza ci pone ogni giorno».

A Catania il team della prof Puzzo, nel Dipartimento di Scienze biomediche e biotecnologiche, è tutto di donne. «Nella mia esperienza non ho mai vissuto una discriminazione di genere e penso che, almeno nell’ambito biomedico, siamo sulla buona strada verso la parità». Quanto tempo passa in laboratorio? «Troppo! – dice ridendo – anche 10-12 ore». In Italia è difficile fare ricerca? «Con il Pnrr ci sono più fondi, ma per tanti anni sono stati pochi. Dalle mie brevi esperienze all’estero, ho capito che noi italiani siamo capaci di lavorare bene anche con il poco che abbiamo a disposizione, siamo bravi ad arrangiarci. Tuttavia, i finanziamenti sono essenziali per condurre una ricerca d’eccellenza».

Maria Rosaria Tropea spera di poter continuare a lavorare a Catania. «Qui si fa ricerca di qualità, il laboratorio ha molte collaborazioni, non bisogna per forza andar via». Il futuro? «In tutto il mondo in questo momento ci sono linee di ricerca che si stanno concentrando su quale sia la causa dell’Alzheimer per trovare terapie efficaci, Spero di poter continuare a fare il mio lavoro, che ci siano i fondi per poterlo fare bene, di poter dare il mio pezzettino di contributo alla scienza, di poter aggiungere anche solo una briciola di speranza contro la malattia».COPYRIGHT LASICILIA.IT © RIPRODUZIONE RISERVATA