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L'INTERVISTA

La Sicilia di Pamela Villoresi: «Una terra bipolare che si complica la vita»

La direttrice del Teatro Stabile Biondo di Palermo: «Amo i rapporti umani ma nel sociale e nel lavoro manca lo spirito di squadra e questo ritarda la resurrezione»

Di Lorenzo Rosso |

È nata a Prato da madre tedesca, nonno austriaco e bisnonna ungherese, ma si considera «siciliana adottata». Stiamo parlando dell’attrice e regista Pamela Villoresi, dall’aprile del 2019 direttrice del Teatro Biondo di Palermo. Un’artista che quest’anno compie i suoi primi cinquant’anni di carriera, festeggiata un po’ in tutta Italia. A Milano, ad esempio, città dove iniziò questa lunga carriera artistica sul palcoscenico con Giorgio Strehler e la Rai, e dove stata premiata dal sindaco, Giuseppe Sala e da numerosi esponenti del mondo della cultura, per il pluriennale impegno nella formazione e valorizzazione dei giovani artisti.

Come si è sviluppato il suo rapporto con la Sicilia?

«È arrivato così. Ho iniziato a lavorare a quindici anni. Sono venuta in Sicilia proprio nei primissimi anni della mia carriera artistica, forse avevo sedici anni, e da allora è nato un grande amore. Tante volte, in passato, arrivando in traghetto dalla Calabria e vedendo quel lembo di terra che si avvicinava, mi si apriva improvvisamente il cuore. Pensavo di arrivare a “casa”. Rispetto alla vita in continente, mi sembrava davvero di poter tornare nel “mio” posto. Negli anni, ho lavorato nei teatri stabili siciliani, nei teatri greci antichi; sono stata scritturata dallo Stabile di Palermo, ho lavorato allo Stabile di Catania e ancora ho lavorato a Messina e nei circuiti teatrali, sia invernali che in quelli estivi, dei “Teatri di pietra”. Sono stata amata dal pubblico siciliano e si è rinnovato in me, questo rapporto di riconoscimento, di cordone ombelicale con la Sicilia».

Che cosa significa “essere adottati” dalla terra di Sicilia?

«Con la Sicilia ho un rapporto intensissimo di corrispondenza, dove sento l’antico; sento l’assoluto, sento i rapporti umani, primordiali, e nel mio campo, sento una competenza teatrale che, in Italia, non c’è in tutte le regioni. Dunque una corresponsione di sentimenti. In Sicilia, in teatro, il pubblico non applaude, non ride in maniera “caciarona”. È un pubblico pudico. Ma se adotta un artista, si muove da Palermo per Catania o Siracusa, da Messina per Agrigento per assistere allo spettacolo (che poi nelle altre regioni non capiscono che per raggiungere queste località ci vogliono due o tre ore di macchina). Non conosco tante persone, in Italia, che vanno, ad esempio, da Firenze ad Ancona per vedere uno spettacolo. Qui invece lo fanno. Lo fanno in generale soprattutto se agli spettacoli ci sono gli artisti che amano. E questo amore, questa corresponsione, ha fatto sì che, per esempio, io sia stata richiamata più volte per degli allestimenti di tragedie antiche. Questo affetto del pubblico siciliano, ovviamente mi ha fatto sentire questo profondo senso di adozione. Ma non solo. Quando ad esempio fu emanato il bando per l’incarico a ricoprire la direzione del Teatro Biondo, sono stati i lavoratori del palcoscenico a suggerire e ad insistere perché partecipassi. Io ero molto scettica perché queste cariche sono sempre di tipo politico, e sappiamo che quando le nomine sono politiche, le donne scompaiono. Inoltre io non ho mai avuto santi in paradiso, per cui mi sembrava inutile partecipare al bando per la direzione di un Teatro Stabile. Ma le maestranze insistevano: “guarda che se tu non ti presenti – mi dicevano –  noi non possiamo neppure sognare”. Così mi sono sentita quasi in dovere nei confronti di tanti lavoratori, e partecipai senza nessuna aspettativa. Quando ho chiesto a questi tecnici, “perché vi esponete così? Poi magari vince l’incarico un altro direttore e non la prende bene che vi siate spesi per me”. E loro hanno risposto con quel meraviglioso detto siciliano che fa: “lassasti sciavuro”. Quindi mi sono presentata.  Forse proprio perché non avevo nessun tipo di “spinte” si è verificata questa piccola magia. Nonostante che, da una parte il Comune spingesse su altri nomi e la Regione ne sollecitasse altri. Così il “papa bianco” è stato vincente. Ed eccomi qui a vivere un’altra volta da siciliana adottiva».

Che poi non è così male, perché per un “non siciliano”, “essere ospiti in terra di Sicilia, dove l‘ospitalità è sacra – diceva un grande della letteratura – è la condizione migliore per godere di un privilegio riservato a pochi”…

«Della Sicilia amo tante cose. Innanzitutto amo la sua bellezza; amo la sua storia, quella che si respira, che si vive. Amo il fermento culturale che c’è. È difficile che nei licei classici romani, ad esempio, vi siano, tra gli studenti, i livelli di preparazione che si trovano invece nei licei classici siciliani. Anche la piccola e media borghesia, in Sicilia ha sicuramente un livello di conoscenze, un livello culturale, anche teatrale, assolutamente superiore. Tengo il polso su diverse situazioni e so quel che dico. Poi c’è una “forbice” tra la piccola e media borghesia e le classi meno abbienti. Conosco quartieri dove vivono bambini che, almeno qui a Palermo, non hanno mai visto il mare. È una forbice molto ampia e noi lavoriamo, come teatro, per cercare di valorizzare la gente dei quartieri più disagiati. Cerchiamo di lavorare assieme a loro, per farli venire a teatro. Cerchiamo di fare iniziative dentro questi quartieri e devo dire che la situazione è in lentissima evoluzione. Della Sicilia amo il mare, “il mio amante azzurro”; amo i rapporti umani, quelli veri, fatti di accoglienza, amo il clima e diciamo che sono felice di vivere qui, luogo dove ho tanti cari amici. Quello che non sopporto invece è il suo contrario. Questa è terra di contrari, come ben sappiamo. Una terra un po’ bipolare. Fatico a comprendere e ne subisco le conseguenze. Qui c’è la mancanza del senso di squadra, di solidarietà. C’è forse nel mondo sportivo ma non nel sociale, nel lavoro. Negli uffici pubblici non si comunica e si fanno la guerra tra di oro. In generale se uno non viene coinvolto in prima persona, in un’evoluzione, pensa di sentirsi in diritto di spararti alle spalle. Questo fa sì che tante iniziative, soffrano e perdano per autogol perché, come si dice qui, “ti stoccano le gambe” dall’interno. A causa di tante guerre intestine, di pasticci, di contributi pubblici promessi e poi non pagati, viene fortemente penalizzato il lavoro di tanti. Noi abbiamo una politica che sicuramente non favorisce il mondo del lavoro. Qui c’è anche l’aggravante di una, diciamo, regalità del referente politico abbastanza barocca. Ovviamente io sono tosco-tedesca e questi, sono dei rapporti che fatico ad accettare. Sono dei codici che non sono miei. Questo fatto affatica molto e fa perdere energie. Mentre ci si potrebbe concentrare a far crescere il territorio. Direi che questa è una realtà che si complica la vita da sola. Credo che sia una delle ragioni, questo di non fare squadra, di non fare rete, che impedisce, ritarda la resurrezione di questa terra che ha invece enormi potenzialità». 

Lei crede che la Sicilia stia cambiando?

«La Sicilia è molto cambiata rispetto a quando venivo le prime volte. All’epoca era considerata un po’ “terra straniera”, divisa dal resto d’Italia. Oggi in Sicilia possiamo dire che, con tutti i problemi del caso, ha vinto lo Stato, ma secondo me bisogna riscoprire il senso di comunità e di solidarietà che permette di approcciare il futuro. Questo cambierà anche il futuro dei giovani. Questa è terra di emorragia di talenti e c’è l’obbligo morale di non farli andare via. Per questo noi facciamo molte iniziative, cerchiamo di dare opportunità ai giovani. Creare un futuro ai giovani significa far crescere le cose anche al di là del proprio piccolo orticello».  COPYRIGHT LASICILIA.IT © RIPRODUZIONE RISERVATA