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Oltre al lavoro, anche le persone al centro: «Creare armonia tra benessere e business»
La “seconda vita” di Cristiano Di Stefano volto noto di tv e spettacolo: uno dei pochi italiani ad avere ottenuto la certificazione di “manager della felicità”
Chiedimi se sono felice. Il titolo preso in prestito dal film comico in cui Aldo, Giovanni e Giacomo vestono i panni di tre amici frustati da una vita lavorativa non appagante calza a pennello. Cristiano Di Stefano, catanese, volto noto della tv e dello spettacolo, 50 anni e una figlia, è uno dei pochi italiani ad avere recentemente ottenuto la certificazione di “manager della felicità”. Ma chi è lo chief happiness officer? Chi garantisce in azienda la giusta armonia tra benessere e business. Ed è così che la figura del Cho – nata negli Stati Uniti per favorire un ambiente di lavoro felice e produttivo basato su collaborazione, inclusione e valorizzazione delle competenze individuali – arriva anche alle falde dell’Etna.«Circa 15 anni fa – dice il team manager a La Sicilia – ho iniziato per caso con un corso per diventare coach di programmazione neuro linguistica (Pnl). Da qui, in un momento in cui quando il mental coach era visto come lo sciamano della comunicazione che poteva cambiare il mondo, mi sono appassionato e sono diventato coach professionista. Ma dalla teoria si doveva passare alla pratica: avevo la possibilità di applicare tutte le competenze acquisite anche nel mondo del lavoro. In un mondo del lavoro che stava iniziando a cambiare, in cui dipendenti non erano più quelli del posto fisso di una volta, ma avevano – e hanno – bisogno di qualcuno che li ascolti, che li guidi».
Può spiegarsi meglio?«Un’azienda è come un vivaio, con piante diverse. E a ognuna va riservato un diverso trattamento: acqua, luce, concime. Ecco perché serve una figura come quella del coach che faccia da tramite tra i dipendenti e la proprietà e che sia in grado di ascoltare in maniera empatica. Ascolta quali sono le tue esigenze, non ti dice cosa devi o non devi fare, ma tira fuori automaticamente da te il meglio. In modo che sia il lavoratore stesso che, sentendosi più motivato, a trovare la soluzione e ad avere una resa migliore. La verità è che tutti noi abbiamo bisogno di essere ascoltati nella vita, è importante».
Buone pratiche per migliori risultati?«I risultati nell’azienda di cui mi occupo, la Di Martino Trasporti, sono arrivati con la riduzione del turn over dei dipendenti che è una cosa che accadeva spesso. Gente che andava via per cercare altre alternative di lavoro non per una ragione economica, ma di benessere. Abbiamo iniziato a organizzare il volontariato d’azienda con i dipendenti durante le ore di lavoro impiegati in attività sociali, pagati dall’azienda, abbiamo inserito il family day, abbiamo cercato di fare sentire i lavoratori parte integrante. Da qui ho capito che solo il coach non poteva bastare e mi sono specializzato in “manager della felicità”».
Poi il “manager della felicità” è arrivato anche in corsia…«Sì. Un’attività che ho portato anche all’ospedale Garibaldi di Nesima. Qualche mese fa ho tenuto un corso sulla comunicazione efficace per evitare conflitti tra personale medico, pazienti e familiari. Sono stato due giorni tra Pronto Soccorso, Rianimazione e Terapia Intensiva a osservare l’approccio del personale e le procedure messe in atto e ho avuto modo di notare alcune criticità nella gestione dei rapporti umani. Da qui ho preso spunto e nei giorni della formazione ho applicato tutto quello che avevo visto per cercare di migliorare soprattutto la comunicazione. Perché è la cattiva comunicazione quello che impedisce un servizio efficiente. Anche nella sanità. Comunicare meglio, non giudicare, ascoltare le esigenze dell’interlocutore sono i segreti per raggiungere l’obiettivo».
Una questione di emozioni…«Tutto parte dalla loro gestione. Con quale spirito affronto la giornata? Mi porto i problemi del lavoro a casa o viceversa quelli familiari in ufficio? Tutto questo si ripercuote sui colleghi, sui risultati e sul fatturato dell’azienda. È a quel punto che è possibile avere un confronto con la proprietà e spieghi che per migliorare le performance di un reparto la strategia giusta è questa piuttosto che quella».
Il mondo del lavoro è un costante work in progress…«Si è stravolto. Si stima che i nati dopo il 2000 cambieranno sette impieghi: è un dato allarmante. Tanti i soldi investiti in formazione per un dipendente che dopo un tot di anni sceglie altri percorsi. Questo indica che non è solo una questione economica, ma di benessere: in un luogo – il posto di lavoro – in cui passiamo più tempo che a casa o con gli amici. Chi non sta bene in un determinato contesto, se ne va: anche a fronte di un contratto a tempo indeterminato. Per questo servono persone – come il manager della felicità – per curare quel vivaio di cui parlavamo prima, che curano le persone (i lavoratori) che hanno bisogno di sentirsi amate, curate, ascoltate».
Nelle grande aziende o multinazionali troppo spesso si è solo un numero…«Se parli con la proprietà non sanno neanche chi sei o che mansione svolgi. Quando invece è indispensabile sapere che il dipendente “x” apporta il suo contributo e lavora in un determinato settore. Perché sentirsi dire “bravo/a” è molto più gratificante che ricevere un premio produttività in busta paga e non sapere nemmeno chi sei. Non si lavora più solo per raggiungere i target aziendali, si lavora anche e soprattutto sulla motivazione personale».
Benessere, felicità e gioco di squadra?«C’è una differenza sostanziale tra manager e leader: il primo è quello che dà ordini, il secondo è quello che guida il team. È come un allenatore di calcio: se la squadra perde il mister non dirà mai che è colpa dei giocatori, ma è colpa mia. Se la squadra vince non dirà è stato tutto merito mio, ma di tutti. Se un vero leader capisce questo allora sì che aumenterà il fatturato, che i lavoratori saranno felici in azienda. Il “manager della felicità” è l’allenatore di questa grandissima squadra che cerca di motivare e di portare risultati».
Cristiano Di Stefano è felice?«Certo che sì. Tutti abbiamo problemi, ma è il significato che diamo a quella difficoltà a fare la differenza: perché la vita è un all inclusive: è come un villaggio turistico, ti arriva di tutto. Sta a noi scegliere se affrontare i problemi in maniera positiva o negativa. E ritorniamo alla gestione delle emozioni. Ho una seconda vita (dopo spettacolo e tv) e anche una terza. Seguo la chiesa, faccio un cammino spirituale che è quello del cammino neocatecumenale e sono anche un catechista: mi è stato affidato un ragazzo che deve fare battesimo, comunione e cresima e a lui parlo di Gesù. È un dono che ho ricevuto. E che mi rende…felice».