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Orazio Arancio, dal cuore di Catania ai Mondiali: «Il rugby la mia scuola di vita»

L’ex campione della Nazionale, oggi promotore dei tanti valori dello sport racconta la sua straordinaria avventura tra sacrificio, passione per la sua città e attività sociali

21 Agosto 2025, 10:46

Orazio A

Sguardo deciso, voce profonda e sorriso aperto. Orazio Arancio non è solo un ex campione della Nazionale di rugby: è un uomo che ha scelto di restituire allo sport tutto quello che lo sport gli ha dato. Dalla periferia di Catania ai Mondiali in Sudafrica, dalle sfide sui campi fangosi all’impegno istituzionale per promuovere il rugby tra i giovani, la sua è una storia di passione, sacrificio e amore per la propria terra. Una vita dedicata ad una disciplina che all’inizio neanche gli piaceva.

Come si è avvicinato al rugby?
«In realtà, è stato del tutto casuale. Un pomeriggio alcuni vicini di casa mi invitarono a scendere a giocare. All’epoca giocavo a pallacanestro con la squadra della scuola “Leonardo da Vinci”, che frequentavo al mattino e che era vicino casa. Quel primo incontro col rugby fu al campo Ulisse, nella zona di Ognina. Ricordo che c’erano anche alcune ragazze appassionate, e per me era un mondo completamente nuovo. L’impatto fu divertente, ma tornai alla pallacanestro. Poi, sei-sette mesi dopo, durante la festa di Sant’Agata, un amico mi provocò dicendomi che non giocavo a rugby perché avevo paura del contatto fisico. Quella frase mi punse nell’orgoglio. Tornai al campo e… fu amore a prima vista. Da quel momento ho dedicato il tempo al rugby, sport che ha condizionato tutte le mie scelte».

Quali sono stati i momenti più significativi della sua carriera da rugbista?
«Ce ne sono tantissimi. Ogni partita, ogni terzo tempo ha lasciato qualcosa dentro di me. Se ne devo scegliere tre. Il primo è il mio primo anno con l’Amatori Catania, quando arrivammo in semifinale contro la squadra di Berlusconi. Pareggiammo a Milano e poi perdemmo di poco a Catania, con lo stadio gremito. Fu un’esperienza incredibile, per noi e per il pubblico. Il secondo è la vittoria dello scudetto con la Benetton Treviso, dopo averlo sfiorato con il Milan. Vincere un campionato italiano ti lascia nella storia. Il terzo è la partecipazione al Mondiale in Sudafrica nel 1995, sotto la guida simbolica di Nelson Mandela. Fu un’esperienza straordinaria, sportiva e umana. Mandela usò il rugby per abbattere le barriere dell’apartheid. Consiglio a tutti di vedere il film che racconta quella storia».

C’è una partita che ricorda con particolare emozione?
«Quella contro il Sudafrica nel novembre 1995, la loro prima tournée da Campioni del Mondo. Giocammo all’Olimpico, e io segnai una meta contro di loro. Per qualche minuto fummo in vantaggio 21-19. Fu un momento speciale, poi perdemmo. Davanti a 45.000 spettatori, record per l’epoca. Ricordo ancora l’emozione di quel giorno».

Il rapporto con compagni e tecnici?
«Il rugby è uno sport di squadra vero. Il cameratismo è fondamentale, così come il sostegno e la collaborazione. Ho avuto ottimi rapporti con tutti i miei compagni, sia nei club che in Nazionale. Tra gli allenatori, voglio citare George Coste, il francese che ci ha portati al salto di qualità, con lui ci guadagnammo l’ingresso nel Torneo delle Sei Nazioni nel 2000».

Che ruolo ha avuto il rugby nella sua crescita personale?
«Enorme. Mi ha insegnato il rispetto, il lavoro di squadra, il sacrificio, l’inclusione. È uno sport duro, di contatto, ma altamente formativo. Ha avuto un’influenza decisiva sul mio modo di vivere e di essere».

Che emozione ha provato la prima volta con la maglia azzurra?
«Era il 1993, a Mosca, -15 gradi. Speravo di entrare in campo solo per scaldarmi! Alla fine giocai l’ultima mezz’ora. Nonostante il freddo, sentivo dentro di me un calore indescrivibile. Esordire in Nazionale è stato un sogno».

Il confronto con le grandi Nazionali?
«Bellissimo. Ho affrontato tutte le grandi: Nuova Zelanda, Sudafrica, Argentina. Giocare in Paesi dove il rugby è una religione ti arricchisce, ti insegna. Mi ha lasciato esperienze uniche e amicizie in tutto il mondo».

Ha sofferto nel passaggio dal campo alla scrivania?
«No, è stata una trasformazione naturale. Mi sono laureato in Economia con una tesi sul rugby. Sono entrato nel Consiglio federale, ho rappresentato atleti e tecnici nel CONI, e oggi sono presidente del comitato siciliano della FIR. Lavoro ogni giorno per promuovere lo sport nella mia terra, anche attraverso progetti sociali. Quando fai della tua passione un lavoro, tutto il resto passa in secondo piano».

Quali sono le priorità per far crescere il rugby in Italia?
«Recuperare numeri dopo il Covid, trovare risorse economiche, abbattere i costi delle trasferte e investire negli impianti, soprattutto nel Sud. Occorre promuovere il rugby nelle scuole e formare dirigenti e tecnici. Praticare sport è oggi un diritto costituzionale, e dobbiamo garantire lo stesso accesso a tutti i ragazzi, dal nord al sud».

In che modo lo sport incide sulla formazione dei giovani?
«Incide tantissimo, sia sulla salute che sulla crescita personale. Soprattutto in zone come il sud Italia, dove i livelli di sedentarietà sono alti. Lo sport, come la scuola e la famiglia, educa al rispetto, alla collaborazione, alla disciplina. È il miglior investimento che un genitore possa fare per i propri figli».

Che consiglio darebbe ai giovani?
«Di giocare per divertirsi. Troppo spesso mettiamo pressioni sui ragazzi, ma lo sport deve essere prima di tutto gioia. Il resto - vincere, diventare campioni - viene dopo».

Guardando indietro, c’è qualcosa che avrebbe fatto diversamente?
«Col senno di poi sì, ma non si può tornare indietro. C’è un episodio che non dimentico: trent’anni fa, un caro amico e compagno di squadra, Massimiliano Capuzzoni, morì durante un’immersione a Taormina. Se potessi tornare indietro, farei di tutto per impedirgli di entrare in mare quel giorno. Era un ragazzo solare e mi manca tanto».

Cosa le ha insegnato il rugby che le è utile ancora oggi?
«Tutto. A rispettare le regole, lavorare per gli obiettivi, collaborare, ascoltare. Anche a gestire le responsabilità, come quando ero capitano. Il rugby ha modellato la mia visione della vita».

Quanto è stata importante Catania nella tua crescita?
«Tantissimo. Non cambierei mai Catania per nessun’altra città. Mi ha dato tutto. Ha un potenziale enorme, anche se spesso ce ne dimentichiamo. Il rugby a Catania è stato formativo: mi ha aperto nuovi mondi e aiutato a crescere. La promuovo ovunque vada».