Il personaggio
Roberto Zappalà, l’estro creativo di un ballerino e coreografo rimasto a Catania: «Pochi soldi per la cultura, vorrei amministrazioni più sensibili»
«Mi piacerebbe vedere nei teatri un numero maggiore di artisti messi ai margini da un pubblico poco “coraggioso”»
Il personale racconto della sua terra, la Sicilia, un rigoroso lavoro sul suo linguaggio coreografico denominato “MoDem” e la ricerca sulla fragilità dei corpi. Il tutto caratterizzato da un’intensa linea poetica e da un profondo dialogo con l’“umano”. È questa la cifra stilistica di Roberto Zappalà che, a Catania, continua a dare sfogo al suo estro creativo. Con tenacia, lucidità, visione e quella straordinaria capacità di essere illuminante.
Dal 2018 dirige artisticamente il Fic Festival che, promosso da Scenario Pubblico e giunto alla sesta edizione, per due settimane fino a oggi, si pone come obiettivo quello di trasformare il capoluogo etneo in un crocevia di danza, teatro, musica e arti visive. Un simile “Focolaio di infezione creativa” potrebbe propagarsi allo stesso modo anche altrove?
«Si tratta di un contagio positivo che certamente si potrebbe diffondere in qualsiasi altra città. Io e Maria Inguscio, direttrice generale di Scenario Pubblico e ideatrice dell’acronimo “Fic”, l’abbiamo fatto nascere a Catania, e ne siamo orgogliosi».
Un evento culturale con oltre centocinquanta artisti che popolano teatri, piazze e luoghi simbolo della città, in una rete di collaborazioni che comprende il Teatro Massimo Bellini, l’Associazione musicale Etnea, l’Università di Catania, il Cut, la Fondazione Brodbeck, Isola Catania e Palazzo Biscari, con il supporto della Camera di Commercio del Sud-Est Sicilia. Tuttavia, stride l’assenza delle istituzioni locali…
«In realtà, c’è il patrocino della Città di Catania che ci è stata vicino anche nell’assegnare al festival piazza Dante, un luogo meraviglioso, per il quale va un apprezzamento straordinario. Ciononostante ritengo che si debba fare uno sforzo maggiore. Mi auguro che, non appena si sarà concluso l’evento, io insieme agli altri partner potremo incontrare il sindaco per discutere delle grandi potenzialità della nostra città che, pur con le sue mancanze, resta meravigliosa».
Sarebbe bello vivere in un mondo con amministrazioni lungimiranti.
«Il punto dolente è la mancanza di disponibilità economica riguardo all’ambito culturale. Il rischio che corre la nostra amministrazione è quello di perdere un’occasione preziosa per sostenere un festival che, numeri alla mano, è fatto di cinquanta ragazzi che, per due settimane, partecipano a dei workshop con docenti internazionali; a quelli se ne aggiungono altri quaranta che fanno parte del percorso che sviluppiamo a Scenario Pubblico. Poi ci sono i centocinquanta artisti che si alternano nell’arco dei quindici giorni del Fic. Tutte persone che, inevitabilmente, vivono la città, fanno girare l’economia catanese e soprattutto portano dei pensieri, delle riflessioni, delle lingue diverse, una differente sensibilità».
La cultura cura. Anche in Sicilia.
«Vorrei che la mia terra fosse più internazionale, soprattutto nell’ambito culturale. Mi piacerebbe vedere nei teatri un numero sempre crescente di artisti solitamente poco compresi da quel pubblico che vuole essere rassicurato dallo spettacolo tradizionale. Vorrei una Sicilia anche più contemporanea, con un grado maggiore di sensibilità, pur rispettando la nostra tradizione letteraria».
La forza atavica della terra ci fa sentire molto piccoli in confronto a quello che la natura offre. In lei è stato irresistibile il richiamo della danza, con la quale poteva provare a esprimersi davvero. Soprattutto per via del rispetto e della sensibilità che provava nei confronti degli altri?
«Penso che il garbo che la danza può avere nel comunicare con gli altri sia la scoperta più grande che io come coreografo e come danzatore prima, ma anche il pubblico che comincia a frequentare il nostro ambiente, abbia potuto fare. È questo che da sempre mi affascina: potersi esprimere attraverso il corpo, attraverso una sensibilità che però, come per incanto, si trasforma anche in violenza, in arroganza».
Crede che il corpo possa essere onesto fino in fondo senza che il pudore venga “espulso”?
«Si tratta di un pudore che non riguarda soltanto l’incapacità di mettersi nudi, ma vuol dire anche muoversi in maniera sgraziata, spiacevole per quel corpo e per chi lo osserva; assumere certe espressioni del viso, fare delle smorfie… Allora bisogna tracciare un percorso di naturalezza estrema che, grazie ai codici della danza contemporanea, faccia emergere la parte più autentica».
Per essere un buon coreografo è stato necessario un passo indietro come ballerino. Le manca quel diciannovenne che si esibiva all’Arena di Verona?
«Vivo così tanto di quella passione, di quel rigore nel raggiungere risultati di volta in volta più elevati, più razionalmente curati nel dettaglio, cercando di dare il massimo che posso offrire, da non pensare al passato. Vivo la giornata e vivo per il futuro, ed è importantissimo mantenere una certa lucidità in questa tipologia di percorso creativo, altrimenti si tende a misurarsi solo con i propri allori».
Detto tra noi, le capita mai di accusare un po’ di stanchezza?
«Sono un po’ stanco di viaggiare, di discutere a volte di cose inutili con della gente che non capisce facilmente. Ma è anche una questione di età, ovviamente. Non provo, però, stanchezza nel creare. Quella mai! Tanto che continuo a realizzare tra le due e le tre opere all’anno».
Adesso a cosa sta lavorando?
«Proprio in questi giorni, ho cominciato “Corpi liturgici”, una performance creativa completamente diversa dall’ultima, “Brother to brother/dall’Etna al Fuji”, con la quale debutteremo in prima mondiale ad ottobre. Diversa nella sua immaginazione, nella sua costruzione drammaturgica, nella sua qualità del movimento. Durerà solo trenta minuti, ma basteranno per riuscire a far entrare il pubblico in maniera molto attenta in questa creazione».
La metodologia che usa è lontana dall’obbligo nei confronti di artisti e danzatori di insegnare loro qualcosa di tecnico, come un maestro. A cosa tende allora Roberto Zappalà?
«Il mio drammaturgo e amico Nello Calabrò, esperto di cinema, mi dice sempre che sono un misto tra Fellini e Kubrick. Il primo caotico, il secondo estremante meticoloso. Ecco, io miro ad essere a metà e, di fatto, lo sono nel mio modus operandi: caotico nella fase creativa, istintivo in sala, e poi molto preciso quando lo spettacolo va in scena. Tutto deve funzionare in maniera assolutamente perfetta, ma senza che la sicurezza acquisita negli anni annacqui il movimento. È quello che penso di essere in questo momento e verso cui potrei andare in futuro, se ce ne sarà ancora molto nella mia vita».COPYRIGHT LASICILIA.IT © RIPRODUZIONE RISERVATA