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Simeone Tartaglione, il maestro siciliano che ha stregato gli Usa

La storia di un agrigentino diventato una star negli Stati Uniti

Di Fabio Russello |

E’ un siciliano che è diventato molto americano o, forse, un americano che è rimasto molto siciliano.Il fatto è che le due cose sono solo apparentemente inconciliabili perché se si tratta di Simeone Tartaglione, ormai famosissimo, ricercatissimo e stimatissimo direttore d’orchestra nonché professore all’Università Cattolica di Washington, diventano invece del tutto sovrapponibili.Simeone Tartaglione ha 52 anni, è agrigentino come la moglie, Alessandra Cuffaro (nella foto qui a fianco), anch’essa agrigentina e pure lei musicista e professoressa universitaria, e da 20 anni ormai vive negli Usa. Prima Denver, poi Baltimora ora Washington. Se si chiede a Simeone come e perché sia finito in America spiega subito il concetto chiave della sua storia (frutto di un talento immenso e riconosciuto Oltreoceano): «Quello che facciamo è il risultato non solo dei sacrifici, del talento o della fortuna, ma è anche frutto di quel che c’è intorno a te, la tua famiglia, i tuoi amici, tua moglie, i tuoi figli. Se non c’è questo substrato che ti permette di essere chi sei non riuscirai mai a fare quel che sogni. Senza mia moglie ad esempio non sarei riuscito a essere quel che sono».

Alessandra, la moglie virtuosa del violino

Alessandra Cuffaro e Simeone Tartaglione

Anche perché Alessandra Cuffaro non è esattamente la moglie e basta. E’ una virtuosa del violino. Per dire, così capiamo subito di che cosa parliamo: è la prima e al momento anche l’unica violinista italiana ad essere riuscita ad eseguire i 24 Capricci di Paganini. Che, per chi suona il violino, è come scalare senza ossigeno e senza l’aiuto degli sherpa l’Everest cento volte.«Sin da bambino sognavo di diventare un direttore d’orchestra – ha raccontato Simeone Tartaglione – e infatti (e qui ride sonoramente, ndr) per carnevale il mio costume preferito era proprio quello di direttore d’orchestra».

L’epopea di un siciliano

Simeone Tartaglione ha studiato per tanti anni e al massimo livello pianoforte fino a diventare, in Italia, a Roma, un apprezzato pianista. Alti e bassi, sacrifici, momenti di scoramento, la consapevolezza di avere talento e la paura di non riuscire a sfondare. La svolta nel 2005: «Un mio amico mi ha segnalato che l’Università di Denver aveva indetto un concorso per una cattedra. Abitavo a Roma da dieci anni e questo mio amico fece la domanda per sé e anche per me. Ma fu una domanda inviata quasi senza “speranze”. Io non avevo con me nemmeno video da inviare. Ne avevo solo uno di un concerto di Capodanno proprio ad Agrigento al Teatro Pirandello, che, per inciso, è stato il mio primo e ultimo concerto ad Agrigento….». Diciamo che la locuzione latina nemo propheta in patria si adatta benissimo a questo signore che ha pure l’aspetto fisico del direttore d’orchestra con la sua fronte spaziosissima e i suoi capelli ribelli.

Dove basta il curriculum

«Passa qualche settimana – ricorda ancora Tartaglione – e da Denver mi risposero: “Venga qui che vogliamo parlare con lei”. Fu un viaggio lunghissimo, da Palermo a Roma, da Roma a New York, poi Chicago e finalmente a Denver. Una città bellissima, perfetta, i prati, niente buche, pulitissima, l’università con una struttura e un teatro da sogno, le sale con l’acustica modificabile. Arrivato lì mi chiesero di eseguire un pezzo che io non amo per nulla, il Carnevale romano di Berlioz. Eravamo in sei i selezionati. Alla fine il capo venne da me, mi invitò a cena e mi disse: “Ti va di stare con noi per due anni?”».Ed è qui che appare la prima vera sliding door davanti Simeone: «Fu una scelta difficile, Alessandra in Italia faceva un sacco di concerti perché è una virtuosa del violino. E’ stato uno choc perché pensavo fosse incredibile che mi avessero dato questa opportunità». Doveva restare due anni a Denver e invece siamo arrivati a venti anni negli States: «Pensavo un paio di anni – racconta sempre Tartaglione – poi mi presentarono Gustav Meier, il grande maestro, e mi chiesero di andare con lui a fare un corso in Messico. Mi ero appena sposato e la luna di miele con Alessandra fu il corso con Meier.

L’incontro con Gustav Meier

Il maestro alla fine del corso mi chiamò nel suo ufficio e semplicemente mi disse: “Mi piace quello che fai, vieni con me a Baltimora». Meier era (e lo è ancora a quasi 10 anni dalla morte) un mito per i musicisti grazie alla sua attività alla Johns Hopkins University. «Era un’occasione da non perdere – racconta ancora Tartaglione –. Pensi che stavamo per prendere casa a Denver e invece ci siamo trasferiti a Baltimora. Una scelta difficilissima perché Alessandra era incinta e perché Baltimora non era esattamente come Denver. Un’altra America». Ma studiare con Meier (il maestro di Tartaglione insieme a Bruno Aprea) è stato il trampolino di lancio perché il nome di Simeone ha cominciato a girare nei circoli culturali della East Coast. «In America – ha detto il maestro siciliano – funziona molto diversamente rispetto all’Italia. Quando c’è da prendere qualcuno si vedono i curricula e si sceglie senza bisogno di segnalazioni, conoscenze. Qui non esiste la grazia ricevuta. Se sei bravo ti prendono, altrimenti no, pure se sei figlio di. Io posso dirlo perché ho avuto a che fare con tutti e due i sistemi».Uscire dalla Johns Hopkins University è, per chi fa musica, come uscire da Oxford o da Princeton. Il massimo, o quasi.

Cinque orchestre a trazione siciliana

«Oggi dirigo cinque orchestre – elenca Tartaglione – e sono incarichi che mi hanno proposto in modo inaspettato. Mi hanno visto e mi hanno chiesto di farlo». Ed è proprio su questa base che si apre la nuova sliding door: «Mi ha chiamato il capo del dipartimento orchestra dell’Università Cattolica di Washington. Mi disse “Simeone faccia la domanda perché ci serve un direttore d’orchestra”. In quel momento abitavo nella stessa città di Biden e andare tutti i giorni a Baltimora era diventato faticoso. E a quel punto, undici anni fa, abbiamo di nuovo scelto di trasferirci. Siamo a Montgomery County, a 40 minuti da Washington». Dovrebbe essere l’ultima tappa visto che anche Alessandra Cuffaro insegna violino nella stessa Università. E pure le due figlie di Simeone e Alessandra, Sofia ed Erika, che hanno 14 e 16 anni, stanno crescendo in questo bel quartiere residenziale dove si respira cultura e ordine da high society Usa. Dalla sala prove si vede la Cattedrale di Washington dedicata all’Immacolata: «Ogni mezz’ora suonano le campane e dalla finestra di vedono suore e preti come se ci trovassimo ancora a Roma».

Vacanze agrigentine

Le vacanze sono naturalmente italiane, anzi siciliane, anzi agrigentine. «Ma guardate che qui non è come in Italia, non c’è un intero mese come agosto dove praticamente non lavora nessuno. E’ un sistema che premia chi fa meglio. Se sei strafottente non ti chiama nessuno».Il ritorno in Sicilia per le vacanze è spesso una gioia immensa e una rabbia altrettanto immensa: «Quando torno? E’ una specie di odi et amo. Ti senti a casa, senti i profumi, è come se si allineassero i binari. Poi comincia l’incredulità nel notare cose assurde e vedere amici e parenti che accettano come normali cose che invece non sono normali. La spazzatura, le buche, l’acqua che finisce. Le mie figlie mi chiedono “ma perché?”. Ma è casa mia, gli affetti, i parenti, gli amici. Diciamo che c’è un po’ di insofferenza dopo che hai assaporato un sistema dove le cose funzionano».Un agrigentino, una specie di star in America, praticamente ignorato da Agrigento Capitale della Cultura 2025? La risposta è «ni», nel senso che è il paradigma dell’approssimazione con la quale questo appuntamento sia stato (ed è) gestito: «Mi aveva contattato il prof. Minio (il presidente della Fondazione silurato a febbraio, ndr) e mi aveva chiamato per fare qualcosa. Ma le cose da me si programmano. Non si fanno con questa improvvisazione. Io ad esempio sto programmando la stagione che parte nell’autunno del 2026…. Ma va detto e lo dico con tristezza che il mio lavoro è completamente ignorato ad Agrigento». Ma ci sarà qualcosa negli Usa che non piace al maestro Tartaglione? La risposta è immediata, di quelle che svela una sicurezza senza tentennamenti: «Cosa non mi piace? Il cibo. E vale anche per i ristoranti italiani della zona, che si dicono italiani ma che nella realtà non lo sono. Ne salvo solo uno qui dalle mie parti. Si chiama il “Canale” di Giò Farruggio. Se ho ospiti li porto lì».COPYRIGHT LASICILIA.IT © RIPRODUZIONE RISERVATA