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Il fil rouge dei reperti per due delitti anomalie una morte sospetta

Un crocevia di tombaroli e faccendieri tra pezzi unici e falsi d’autore. Lo strano incidente al Duomo che costò la vita al restauratore Guarino

Carmelo Schininà

05 Dicembre 2024, 09:04

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Due omicidi e una morte sospetta. Un ingegnere con un foro in testa rimasto per 52 anni in un fascicolo a carico di ignoti. Un giovane cronista crivellato da sei colpi di pistola chino sul volante della sua 500 ferma davanti al carcere di Ragusa con il motore ancora acceso. Un restauratore con il corpo ancora contorto nell’ultimo tentativo di sfuggire alla morte, folgorato da una scarica elettrica nel campanile del Duomo di San Giorgio.

Tre menzogne: l’omicidio privo di movente, il giornalista “provocatore”, “l’elettricista improvvisato”. Una sottile line nera tra le bombe esplose a Ragusa, Siracusa e Vittoria nel ’72 e un segreto nelle carte di un maggiore della guardia di finanza. Tutto in un gioco di specchi dove la gente ha confuso dicerie e verità. Tutto per un “pezzo di gran pregio” che si disse fosse finito in un museo americano, venduto per 100 milioni di lire ma che forse viaggiava nella stiva impolverata di una nave peschereccio battente bandiera jugoslava per il doppio di quel valore.

Ragusa 1972, anno nero. La vicenda di Giovanni Spampinato, venticinquenne giornalista de “L’Ora”, non inizia la mattina del 26 febbraio quando una contadina, trova il cadavere di un uomo sul ciglio di una trazzera poco fuori Ragusa. Questa storia inizia due anni prima. Nella notte tra il 10 e l’11 agosto 1970 quando una banda di ladri porta a segno un colpo nel laboratorio di un restauratore di oggetti d’arte nel quartiere antico di Ibla. È una storia che raccontiamo per la prima volta, trovata nell’archivio della “Sovrintendenza alle Antichità” del museo di Siracusa.

Il restauratore si chiama Salvatore Guarino, è un ragazzone di 33 anni che non denunciò mai quel furto. Lo chiamano “il professore”, perché sa molto di storia dell’arte e del barocco siciliano. Ha iniziato il mestiere di decoratore dieci anni prima in una bottega di via Crociferi a Catania. Ha talento nel disegno e nella pittura, in pochi anni aveva restaurato le statue nelle chiese di Noto, Chiaramonte, Modica e Ragusa. Il Duomo di San Giorgio a Ibla, dove il 6 gennaio 1973 troverà la morte in un misterioso incidente sul lavoro, è la sua seconda casa. Scatterà comunque un grosso sequestro di materiale archeologico trovato nella sua bottega il 17 agosto: vasi greci, anfore, coppette, lucerne. Oltre 100 pezzi, uno più bello dell’altro. Furono repertati da un funzionario esperto della Sovrintendenza di Siracusa: Gaetano Bottaro, un nome che tornerà in questa storia.

Salvatore Guarino viene denunciato in concorso con un medico chirurgo di Vittoria, Francesco Burrafato, perché uno dei reperti trovati nel suo laboratorio, un Pithos, un grosso vaso che somiglia a una giara, gli era stato affidato proprio dal dottore per farlo decorare. I due vengono condannati a una multa salata per detenzione di materiale archeologico proveniente da scavi clandestini.

Il restauratore è molto provato sia dal furto che dal sequestro, il suo nome finisce anche nel dorso della cronaca locale de “La Sicilia”. Ma i conti non gli tornano e qualche mese dopo, a febbraio del ’71, scrive una lettera alla sovrintendenza di Siracusa retta allora da Luigi Bernabò Brea, uno dei più insigni protagonisti dell’archeologia del Novecento, chiedendo di poter visionare alcuni reperti archeologici («54 pezzi e frammenti», specifica) sequestrati in un’altra retata a Vittoria il 26 agosto, 9 giorni dopo quella nella sua bottega. Nella lettera il restauratore si lascia sfuggire un dettaglio che non aveva raccontato: «La notte del 10 agosto mi furono rubati circa 60 pezzi della mia collezione di vasi archeologici, chiedo di poter esaminare e confrontare con le foto in mio possesso il materiale sotto sigillo dal 26 agosto perché ho dei sospetti verso le persone presso cui venne effettuato il sequestro a Vittoria». Il museo gli concede il nulla osta.

Il sequestro del 26 agosto, recuperato in archivio a Siracusa, è l’unico in mezzo a moltissimi fascicoli che abbiamo visionato a presentare grosse incongruenze: parla di 50 reperti archeologici sotto sigillo (come aveva indicato il restauratore) ma l’inventario riporta solo 33 pezzi, repertati ancora una volta da Gaetano Bottaro. Si parla inoltre di materiale sequestrato a Monterosso, vicino a Ragusa (e non a Vittoria) a due cugini contadini. Manca quindi un bel numero di reperti archeologici. Forse proprio quelli sequestrati a Vittoria, forse proprio i pezzi rubati al restauratore che ora sospetta del medico Burrafato e dei suoi “contatti”.

Questa storia ci dice due cose. La prima: alcuni reperti archeologici sparivano anche mentre si trovavano sotto sigillo. La seconda: il restauratore era sotto attacco da parte di agguerriti tombaroli. Nell’archivio di Siracusa ci sono molti sequestri fatti a tombaroli di Vittoria tra il ’68 e il ’73 (Fichera, fratelli Magno, San Filippo, Di Martino, Foresti, Malavigna, Battaglia, Cilia), nomi che tornano anche in una informativa della guardia di Finanza che nel ’74 stringerà il cerchio sull’allora capo mafia di Vittoria Giuseppe Cirasa (conosciuto solo come contrabbandiere) e altre 111 persone in relazione ai traffici di contrabbando. Dunque molti contrabbandieri vittoriesi erano dediti al traffico illecito di reperti archeologici e agli scavi clandestini. È anche vero che la procura di Ragusa allora dava la caccia ai tombaroli ma nei fascicoli finivano solo i pesci piccoli: contadini, manovali, artigiani. Come vedremo più avanti i traffici più “importanti” restarono sempre fuori dalle indagini della magistratura inquirente di allora. Tra i pesci piccoli furono pescati anche il restauratore Guarino e il dottor Burrafato che dopo quel fascicolo sparisce dai radar, inizia una lunga carriera come medico chirurgo a Castelvetrano per riapparire solo nel 2018 in un’altra ordinanza di sequestro. Stavolta non si tratta di reperti archeologici ma di telefono cellulare e computer. Il medico finisce in un fascicolo (poi archiviato) della Dda di Palermo riguardante presunti fiancheggiatori della latitanza di Matteo Messina Denaro. Secondo gli inquirenti Burrafato è un vecchio amico di famiglia del boss.

’U Siccu, forse anche per sviare l’attenzione dalle stragi di mafia all’indomani della sua cattura, ha raccontato molto sul traffico dei reperti archeologici negli anni ’70 all’origine della ricchezza di famiglia creata da suo padre Don Ciccio. Emerge una Sicilia serbatoio dell’archeologia clandestina. «All’epoca scavavano tutti, anche le donne», racconta Messina Denaro. «Di notte da soli, di giorno con la Sovrintendenza dello Stato. Reperti venduti in Svizzera e da lì negli Emirati Arabi e in America». Il boss spiega anche il ruolo che spesso svolgevano i decoratori: «Un vaso greco senza figure andava dai 2 ai 3 milioni di lire, ma con le figure valeva dai 20 ai 40 milioni». Racconta anche di una sorta di “laboratorio centrale” che si trovava a Centuripe, dove i reperti venivano decorati per renderli “pezzi unici”. In seguito venivano nuovamente sotterrati e dopo qualche anno tirati fuori e venduti nel mercato internazionale.

Più di una persona che ha conosciuto Salvatore Guarino ci ha raccontato che tra il '68 e il '72 il restauratore faceva molte trasferte a Centuripe. Non è escluso che fosse uno dei decoratori chiamati dal laboratorio e che fosse a conoscenza del viaggio dei reperti nel mercato internazionale. Ma Guarino è anche l’artista di fiducia dell’altro protagonista di questa storia: l’ingegnere Angelo Tumino, ex playboy, già consigliere comunale dell’Msi, trafficante di oggetti d’arte, ucciso la sera del 25 febbraio del '72 e trovato cadavere da una contadina la mattina dopo in una trazzera di Ciàrberi, in contrada Galerme, poco fuori Ragusa. Il nuovo fascicolo sul suo omicidio, aperto 5 anni fa a Ragusa dal pubblico ministero Santo Fornasier, fissa un’ipotesi chiara: l’ingegnere sarebbe stato ucciso in un giro d’affari intorno a un vaso greco, un cratere di inestimabile valore. L’indagine ha un verbale d’eccezione, quello del fotografo del barocco in Sicilia Giuseppe Leone, scomparso il 17 aprile scorso. Leone ha raccontato che pochi giorni prima di essere ucciso, Angelo Tumino gli avrebbe portato chiuso in un sacco di juta (teniamo a mente questo dettaglio) un cratere greco per farlo valutare. Il fotografo lo avrebbe mostrato proprio al funzionario esperto di Siracusa Gaetano Bottaro (per il quale all’epoca fotografava i reperti) che ne avrebbe confermato l’inestimabile valore. Leone ha stranamente raccontato questa storia (anche a noi) solo cinquant’anni dopo i fatti. Ha detto anche di non aver fotografato il cratere per pura deontologia (“non mi era stato chiesto e non lo feci”) e che dopo averlo fatto vedere a Bottaro lo avrebbe riconsegnato all’ingegnere che sarebbe stato assassinato da lì a poco.

La cricca degli amici depistatori per sviare le indagini sui neofascisti

La pista “dimenticata”.Il pm Fornasier interseca oggi un’inchiesta dell’82 nata dalle dichiarazioni di un oscuro testimone.

L’inchiesta di Santo Fornasier, pm a Ragusa, interseca un’indagine dell’82 nata dalle dichiarazioni di un oscuro testimone, Bartolo Dell’Albani e dall’accusa di un maresciallo dei carabinieri secondo cui Angelo Tumino, il restauratore Guarino e Roberto Campria, trentenne figlio del presidente del tribunale di Ragusa, autore - otto mesi dopo - del delitto Spampinato, sarebbero stati “soci” in un affare intorno a un cratere greco proveniente dagli scavi clandestini. Nell’affare ci sarebbe stato anche Ernesto Dimarco, un concessionario d’auto amico di Tumino e Guarino. L’omicidio dell’ingegnere Tumino sarebbe scaturito «da un enorme giro di danaro illecito proveniente dalla ricerca, ricettazione e rivendita di materiale archeologico e in particolare dalla spartizione e possesso del ricavato di un cratere valutato oltre 100 milioni e venduto a un museo americano la cui trattativa sarebbe stata curata e definita da Dimarco». Emerse anche che il restauratore aveva stretto rapporti d’affari col concessionario producendo disegni e manifesti per la campagna elettorale delle ammnistrative del 7 giugno 1970 in cui Dimarco avrebbe sovvenzionato con una “grossa somma” un piccolo partito locale. Dimarco fu intercettato e perquisito ma non emerse nulla a suo carico. Il fascicolo fu archiviato.

Guarino, Campria e Dimarco erano stati sentiti come testimoni nel 1972 durante le prime indagini dell’omicidio Tumino iniziate col procuratore Francesco Puglisi e il sostituto Agostino Fera e passate poi al giudice istruttore Angelo Ventura che archivierà quel fascicolo nel ‘75 senza individuare movente e sospettati. Il fascicolo del ’72 non fece alcun riferimento a “reperti archeologici” o “scavi clandestini” ma solo a “oggetti d’arte” e “materiale d’antiquariato”. A Guarino, che due anni prima aveva subito quel grosso sequestro di materiale archeologico, non gli fu fatta nessuna domanda sul traffico dei reperti. E né Dell’Albani, né il maestro Leone furono mai sentiti. Ernesto Dimarco invece è stato più di una volta interrogato anche nel nuovo fascicolo di Fornasier ma ha negato di aver avuto a che fare coi reperti archeologici. È deceduto un anno fa durante l’indagine. Campria è morto nel 2007. Nel ’72 non si indagò mai su quella cerchia di persone individuata dieci anni dopo. Né sui contatti che questi potessero avere con altre persone interessare all’affare (sentiti all’epoca) come Giovanni Cutrone, un pregiudicato che nei giorni precedenti il delitto Tumino frequentava l’ingegnere o Vittorio Quintavalle, un pittore, ex Decima Mas. Su Quintavalle e Campria invece indaga Giovanni Spampinato, 25 anni, corrispondente da Ragusa de “L’Ora” di Palermo, il quotidiano della sera punto di riferimento del Partito Comunista in Sicilia. Spampinato inserisce l’omicidio Tumino nell’ambito neofascista e nel contesto dello stragismo nero emerso dopo la bomba di Piazza Fontana del 12 dicembre 1969: come è noto, il processo contro l’anarchico Valpreda si rivelò frutto di un’accusa costruita a tavolino e dalle indagini della magistratura di Treviso emersero precise responsabilità neofasciste su Piazza Fontana. Spampinato si muove nel contesto della controinformazione che mirava allo smascheramento della strage di Stato. Mette in relazione alcuni ordigni fatti esplodere tra Ragusa e Siracusa in quei mesi «col giro di armi ed esplosivi che viaggia parallelo al contrabbando locale di sigarette che sbarcano sulle coste della Sicilia Orientale». Ha appena scoperto che il pittore Quintavalle e Campria, sono stati interrogati dopo l’omicidio Tumino. «Penso che Quintavalle sia implicato col traffico illecito di pezzi archeologici ma che abbia anche una funzione politica precisa nelle fila neofasciste» scrive il 28 febbraio, due giorni dopo l’omicidio, alla sua amica Angela Fais, segretaria di redazione de “L’Ora” che tre mesi dopo, il 5 maggio, morirà nella strage di Montagna Longa.

Erano i mesi che seguirono l’autunno caldo. La spinta delle riforme aveva messo a dura prova i privilegi della borghesia, ne era seguito un enorme spostamento di voti a destra. La paura spinge le frange reazionarie a giocare la carta della violenza. E mentre da Catania a Siracusa era un pullulare di campi paramilitari da cui uscivano picchiatori e teppisti fascisti il momento diventò propizio anche per i terroristi, quelli veri. «Stefano Delle Chiaie a gennaio era a Ragusa», scrive Spampinato il 6 marzo su “L’Ora”. Il fondatore di Avanguardia Nazionale, latitante in quel momento perché ricercato per le bombe all’Altare della Patria, è stato riconosciuto dai ragazzi del partito socialista. Il giornalista disegna il triangolo: Delle Chiaie, Quintavalle, Cilia e sospetta che l’ingegnere sia stato ucciso in un giro poco chiaro che potrebbe avere a che fare col sottobosco fascista. Anche le indagini dei magistrati all’inizio vanno in quella direzione. Nelle 24 ore che seguono all’omicidio, mentre si cerca l’auto dell’ingegnere lasciato cadavere in quella trazzera, due finanzieri la intercettano a Scoglitti con a bordo due presunti contrabbandieri già visti in altra occasione a bordo di una 124 sport (dettaglio interessante che tornerà più avanti) insieme «a tale Cirasa da Vittoria». Si sospetta anche che uno dei due individui possa essere Quintavalle. Su Roberto Campria, trent’anni, figlio del presidente del tribunale di Ragusa invece Spampinato ha saputo (da un fratello del morto) che si trovava in casa di Tumino a rovistare in solitudine tra oggetti e carte proprio nel pomeriggio del 28 febbraio, il giorno in cui l’ingegnere sarebbe stato ucciso. “L’Ora” titola “Sotto torchio il figlio di un magistrato” ed è in quel momento che entra in funzione quella che chiameremo “l’arma di distrazione di massa”: un gruppo di interessi criminosi pronto ad approfittare del buio in cui brancolano gli inquirenti. Ciò permetterà di distrarre l’opinione pubblica verso altri fatti e circostanze. I sei articoli precisi ed equilibrati che Spampinato dedica al caso Tumino saranno manipolati da una narrazione costruita ad arte da chi vuole confondere le cose. Questa lettura falsata farà guardare il dito e non la luna, cristallizzando la grande menzogna che dura da 52 anni: e cioè che il giornalista con i suoi articoli tendenziosi e le sue domande insistenti aveva portato all’estremo una personalità fragile come quella di Roberto Campria (che nel frattempo era stato lasciato dalla sua fidanzata) dopo le voci che circolavano sul suo possibile coinvolgimento sul caso Tumino. Dunque la tesi accreditata per 52 anni è stata questa: Roberto Campria aveva ucciso Giovanni Spampinato perché il giornalista, con i suoi articoli, lo aveva indicato come il probabile autore dell’omicidio dell’ingegnere Angelo Tumino. Nel frattempo però le indagini sull’omicidio Tumino giravano a vuoto. È allora che Spampinato inizia a interrogarsi e a capire. Nel suo pezzo del 28 aprile che L’Ora titola “Molte voci tendono a sviare le indagini” il cronista aveva azzeccato l’ipotesi giusta: Tumino ucciso da «uno sconosciuto committente per un pezzo di gran pregio». Il giorno dopo i carabinieri depositavano un rapporto che oggi sembra la scatola nera di quel fascicolo. Si abbandonava la pista “Cirasa-Quintavalle”. Si riportava un solo gruppo sanguigno di tipo A trovato nel sedile dell’auto, compatibile con quello della vittima, omettendo i risultati dell’istituto di medicina legale di Catania del 18 marzo che avevano cristallizzato la presenza anche di un altro gruppo sanguigno, di tipo B, trovato in un sacco di juta (che si era macchiato di altro sangue probabilmente durante la fase dell’omicidio) dentro la macchina dell’ingegnere. Si tratta dello stesso sacco di juta nel quale si trovava il cratere che Tumino aveva portato al fotografo Leone?

Elementi importati sui quali la nuova indagine di Fornasier potrebbe far luce per chiarire definitivamente se si trattò di semplici discrasie o se invece il rapporto dei carabinieri depositato il 29 aprile segnò l’inizio di un preciso disegno orchestrato per sviare le indagini, come aveva suggerito nel suo articolo Giovanni Spampinato. Quel rapporto però stringe il cerchio intorno a Campria e Cutrone: potrebbero aver mentito sull’ultima volta che avevano visto l’ingegnere. Una testimone, Elisa Ilea, li avrebbe visti uscire insieme a Tumino il pomeriggio del giorno in cui l’ingegnere sarà ucciso. L’accusa di falsa testimonianza verrà formalizzata solo dopo che Roberto Campria uccise Spampinato. Il figlio del presidente del tribunale e Cutrone, che negarono sempre di conoscersi, saranno condannati per aver detto il falso. Ma una condanna per falsa testimonianza non basta per contestare un omicidio. Occorreva un movente, non fu trovato. E nemmeno il nome di un sospettato.