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Quando l’Etna fu vinto

Il racconto di Francesco Merlo per la storica eruzione con la lava deviata

Di Redazione |

E’ stato il festival della cattiva stampa. Certo, l’eruzione dell’Etna non è argomento da affrontare con infinite cautele e misurando le parole.

Ci si può abbandonare, se si vuole, ai paesaggi che sull’Etna durano centocinquanta, duecento metri e subito cambiano e ad ogni cambiamento, come il colore della terra, cambiano le piante e gli animali. Ci si può abbandonare, se si vuole, alla sociologia, raccontando la vita di paesi che si riempiono d’estate, la speculazione edilizia, le vicende del parco e la beffa del fuoco che divora fili spinati, lucchetti, cemento armato e sanatorie regionali.

Ci si può abbandonare al giornalismo «antropologico» raccontando gli uomini dell’Etna, il mago delle ruspe, le guide, i cantastorie, i sognatori naturalisti che conoscono i nomi delle piante che spuntano con la primavera, e i poeti della roccia che osservano le più belle nuvole della Terra navigare pigramente da un cocuzzolo all’altro. Ci si può abbandonare alla politica chiedendosi come mai la classe dirigente di Catania, in tanti anni, non ha mai voluto o saputo commissionare e dirigere un qualche progetto concreto per capire l’Etna e per proteggere il suo territorio. Ci si può abbandonare alla polemica scientifica raccontando le invidie, i conflitti di competenza,gli insulti a labbra strette e le accuse reciproche a cui gli uomini della vulcanologia locale (ben due istituti!) si sono lasciati andare in tutti questi anni. Ci si può abbandonare alla ricchezza della cronaca viva o alla mitologia e si può persino ragionare sulle suggestioni del vulcano, maschio come tutte le montagne ma femmina per via di quelle bocche rosse e nere. Insomma, ci si può abbandonare.

E invece i giornalisti «da sbarco» hanno cercato soltanto conferme ai propri pregiudizi.

E così sono venuti fuori gli immancabili contadini «con le facce di spugna» che, ovviamente, «buttano le coppole in aria e sputano per terra» imprecando contro “a muntagna maliditta”.

E, per un togato collega, le tradizioni legate alla fioritura dell’aglio e le feste religiose (povero Sant’Alfio) sono diventate un mezzo per esorcizzare il vulcano. Due disinvolti inviati poi, pur trovandosi dinanzi alla lava e all’Etna, hanno preferito lasciarsi attirare dalla «marca» di una escavatrice. Partiti da Roma con la mafia nella testa l’hanno cercata dappertutto, anche nelle ruspe che a Catania, secondo toro, dovrebbero mordere la terra con accanimento oltremodo sospetto.

Improbabile il servizio televisivo di Enzo Tortora che, con la sua aria da missionario penitente, si è circondato di una decina di tipi strani e li ha presentati come il popolo dell’Etna. E quando uno di questi «personaggi-verità» si è messo a blaterare emettendo incomprensibili monosillabi, Enzo onora si è guardato intorno chiedendo con accento sincero: «Cos’è, dialetto stretto?».

Di tutt’altro tono e di ben altra qualità (una volta tanto) i servizi offerti dalla TV di Stato. A parte qualche cronista che ha evidentemente commentato dallo studio immagini che altri avevano girato sul posto, bisogna dire che, in generale, il lavoro dei colleghi della sede RAI di Catania è stato ottimo Puccio Corona era sempre al posto giusto e nel momento giusto. Grazie alla TV abbiamo visto persino un vulcanologo che se ta dava a gambe inseguito da uno sberleffo del vulcano.COPYRIGHT LASICILIA.IT © RIPRODUZIONE RISERVATA

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