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Sant'Agata

Le Benedettine e il canto in latino di una donna ferita e gloriosa

Le parole di Agata dopo il martirio: la preghiera che accende la luce sulle tenebre per superare la sofferenza nella fede in Dio 

Di Sonia Distefano |

«Stando la beata Agata in mezzo al carcere, elevate le mani pregava il Signore: Signore Gesù Cristo, Maestro buono, ti ringrazio perché mi hai fatto vincere i tormenti dei carnefici, esaudiscimi, o Signore, e fammi pervenire felicemente alla tua gloria infinita».  E’ la traduzione italiana del canto, in latino, che le suore benedettine dell’adorazione perpetua del SS. Sacramento, eseguono pubblicamente dal 1987, su invito dell’allora arcivescovo di Catania, mons. Luigi Bommarito, al passaggio della processione in via dei Crociferi. Ma qual è la storia di questo canto? A risponderci le protagoniste di uno dei momenti più suggestivi della festa. «Questo canto rappresenta la storia che si rinnova – spiega suor Maria Cecilia – sono le parole di Agata. Non è un canto che innalziamo alla nostra Patrona, ma è la preghiera di Agata al Signore, come il Magnificat è la preghiera di Maria. Le parole di Agata sono tramandate dagli atti del martirio. Dunque, è il canto di una donna ferita fisicamente e umiliata proprio nel suo essere donna, ma è anche un canto di gratitudine e riconoscenza, perché nella sofferenza Dio ha dato ad Agata il segno della sua vittoria. Divenne preghiera come testo liturgico gregoriano; musicato e trasformato in canto polifonico alla fine dell’800 su musica di Filippo Tarallo, musicista di origine napoletana; le suore lo hanno sempre cantato e tramandato in latino».  Atteso atto della processione di Sant’Agata prima del rientro in cattedrale, il canto delle benedettine emoziona e unisce tutti. A descriverci quel momento è la priora, madre Agata: «Prima dell’inizio del canto si crea un silenzio così profondo che diventa un momento di altissima spiritualità. C’è commozione e tenerezza. Sant’Agata, nonostante tutto quello che ha subìto nel martirio, chiama Gesù “maestro buono”, chiedendogli di poterlo raggiungere in cielo. L’emozione è fortissima. Io accompagno il canto con la tastiera, perché in quel momento non sarei capace di cantare. Le distanze sono annullate. Si è tutti un unico corpo: tutti catanesi e devoti, tutti uguali, mentre prestiamo la voce ad Agata».  Suor MariaTeresa spiega che le parole di Agata sono la “lente” attraverso cui è possibile guardare alla sofferenza con occhi nuovi.  «Quello che stiamo vivendo è un periodo terribile per tutti, anche per noi. Ciò he ci permette di avere uno sguardo più elevato è l’esempio di Agata, che ci dimostra come sia possibile trovare un senso alla sofferenza. In questa pandemia in cui ci siamo scoperti fragili, lo sguardo ad Agata diventa ancora più significativo perché guardando a Lei abbiamo un esempio di coraggio e di forza, nella fiducia in Dio».  Le suore di clausura concludono guardando oltre la pandemia, alle tante situazioni di sofferenza di questi tempi, come i tanti focolai di guerra, la precarietà economica, gli sconvolgimenti climatici.  «A volte ci ripieghiamo sulle nostre ferite, ma Agata ci dice che anche nelle prove, nelle tenebre, Dio ci consegna un bene più grande: un salto nella fede, perché Dio accende sempre una luce. Anzi la luce l’ha accesa e non si è mai spenta». 

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