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Sicilia secondo me

Aldo Baglio e quelle battute nate pensando ai parenti palermitani

Una vita professionale trascorsa con Giovanni e Giacomo, poi la decisione di provare da «solista»

Di Gino Morabito |

Sicilia e «sicilianitudine». L’innesco per raccontare a tuttotondo la personalità esplosiva di Aldo Baglio. Il lavoro all’officina meccanica, la Sip e poi il sodalizio artistico con Giovanni Storti e Giacomo Poretti, insieme ai quali ha dato vita a pagine memorabili della comicità italiana. L’occasione è stata il «Visiona Movie Fest», un format itinerante che promuove la settima arte, arrivato al teatro comunale Garibaldi per celebrare il binomio cinema-turismo in una città Unesco. Una manifestazione organizzata, il 27 e 28 ottobre, in stretta sinergia da Driadi Produzioni, Hemingway & Co e dall’amministrazione comunale di Piazza Armerina (Enna).

«Non ci posso credere!». Da dove nasce quello che poi è diventato il tormentone più direttamente riconducibile al tuo personaggio?«La verità è che mi piaceva indossare la parrucca, per quell’aspetto surreale che mi conferiva, e mi veniva naturale, qualunque persona incontrassi, additarla con “non ci posso credere, il mio attore preferito… il mio cantante preferito…” e così via, fino a quando è diventato quel tormentone».

Ci sono due specie di persone: gli attori e i funamboli. A quale categoria senti di appartenere?«Sostanzialmente, io e Giovanni (Storti, ndr) eravamo una sorta di funamboli del palcoscenico. Facevamo clownery, un gioco sulla sedia – che ci rubavamo a vicenda – e dei salti acrobatici che oggi non saremmo più in grado di ripetere.»

Le origini sono palermitane, ma la tua vita è da sempre a Milano. Com’è stato per un siciliano imparare a fare il siciliano?«Inizialmente, avevo adottato una parlata bolognese che però non mi convinceva fino in fondo. Poi, in uno spettacolo scritto da Giangilberto Monti, c’era una scena di mafia e mi hanno proposto di fare il pecoraio siciliano. Le prime volte non è che mi fosse venuto proprio bene. Così ho ripensato ai miei cugini, ai parenti, ad alcune situazioni familiari. È stata una trovata artistica per la quale ho dovuto studiare ma, quando alla fine la caratterizzazione era quella giusta, non ne sono più uscito».

La confidenza con l’eterno è stemperata dall’ironia, una dimensione che appartiene al nostro essere siculi.«La Sicilia è la mia prima casa, e ci sono ritornato. Sto mettendo radici su in montagna – il che è abbastanza anomalo – tra la zona del Catanese e quella del Siracusano, e il mio dialetto pseudo palermitano si è un po’ imbastardito. Una terra che è stata fondamentale anche nella carriera professionale, perché è solo grazie ai miei parenti se oggi ho questa verve comica che mi caratterizza».È datata 1991 la nascita del trio comico inizialmente chiamato «Galline vecchie fan buon brothers».«Avevamo un amico proprietario di un caffè-teatro nel Varesotto. La domenica era una giornata morta e allora ci propose di rivitalizzarla con delle nostre improvvisazioni. All’epoca, eravamo abbastanza disperati e così accettammo subito. Ricordo che ci vestimmo con delle giacche leopardate e, al momento di scegliere il nome, decidemmo di chiamarci “Galline vecchie fan buon brothers”. Per noi si trattava di un vero e proprio laboratorio artistico. È un pezzo della nostra storia e sicuramente molto repertorio è venuto fuori da lì».

Immaginavi che un giorno la tua vita sarebbe stata questa?«No, mai! Agli inizi, con Giovanni e Giacomo, abbiamo fatto di tutto: le performance in strada, i Grandi magazzini, i mimi davanti alla Scala. Il nostro obiettivo era quello di comprarci un furgone e girare l’Europa con un numero internazionale. Poi, una volta cresciuta la qualità dello spettacolo, esibirci anche in un piccolo circuito di teatri. Ma è andata decisamente meglio.»

Una volta assemblato il repertorio, si va in scena al «Ciak» di Milano«Il nostro spettacolo piaceva molto. Il primo anno fummo ingaggiati per una settimana, il secondo per due, il terzo per un mese intero. In quel momento lì abbiamo cominciato a capire di avere un pubblico nutrito che ci seguiva».

Poi il fortunato incontro con Paolo Guerra che spalanca le porte di tutti i teatri d’Italia«Era il periodo in cui facevamo “Mai dire gol” e godevamo di tutta la notorietà arrivata grazie a quella trasmissione. Il successo fu tale che ci proposero di fare un film. E così realizzammo “Tre uomini e una gamba”».

Un film campione d’incassi al botteghino, al quale fanno seguito «Così è la vita», «Chiedimi se sono felice», «La leggenda di Al, John e Jack», fino al più recente «Scappo a casa» dove per la prima volta Aldo Baglio è protagonista senza i suoi due compagni di avventura. Esperienza che bissa tre anni dopo con «Una boccata d’aria». Perché la decisione di fare il «battitore libero»?«Immagino ci fosse, da tutti e tre, anche il bisogno di staccarsi un po’ per sperimentare, capire meglio chi eravamo e che cosa volevamo fare. Inoltre, avevo la velleità di curare tutta un’opera dall’inizio. Con il primo film, “Scappo a casa”, è andata benino, con il secondo, “Una boccata d’aria”, molto meglio. Adesso sto cercando di vendere un terzo soggetto».

Continuare a mettersi in discussione portandosi sempre dietro ciò che dà sicurezza«Non ci sono Giovanni e Giacomo e, il fatto di sperimentare il mio personaggio con altri attori, mi fa capire delle cose nuove, diverse. Faccio comunque tutto per puro divertimento, chiedendomi ogni volta se devo ritirarmi. Ma sento ancora l’affetto della gente, e questo mi basta».

E fuori dal personaggio?«Si cresce da soli e i valori, alla fine, li recepisci dall’esterno. Se ripenso alla mia infanzia, non dico che ero un teppista ma abitavo in zone di periferia in cui era normale marinare la scuola quasi tutti i giorni. La mia personalità e il mio carattere sono venuti fuori non di certo in famiglia, ma in mezzo alla gente, nella strada. Quella strada che oggi manca ai ragazzi per crescere e fare esperienza.»

Un percorso di vita e una carriera professionale che fanno i conti con l’arte. Anche quella di dipingere«Arte intesa come ricerca del bello, di un’estetica che piaccia. Non a tutti ma a te. Con quella sua funzione terapeutica necessaria a conoscersi meglio. Non dico mai “adesso faccio arte”. Mi piace chiudermi in una stanza e buttare colori, imbrattare la tela. Prediligo l’astrattismo, dipingo di getto facendomi condurre per mano da qualcosa che sento dentro. Non saprò mai che cosa avessi voluto dire attraverso quei colori, però è bello questo mistero, e mi affascina».COPYRIGHT LASICILIA.IT © RIPRODUZIONE RISERVATA