20 dicembre 2025 - Aggiornato alle 16:19
×

Famiglia a pezzi, genitorialità mostruosa, lavoro (e Ai), natura tra i temi ricorrenti a Venezia

Il divo è ancora made in Usa, sono loro che hanno ottenuto le strilla con i decibel più alti, i filari più folti di giovani in attesa, sole o maltempo

Ilenia Suma

07 Settembre 2025, 13:03

elordi

Come ogni anno è possibile scorgere nei temi più ricorrenti presenti nei film in Mostra quelli che gli autori ritengono siano i nodi cruciali dei tempo che stiamo vivendo. 

Per l’82esima edizione, molti quelli incentrati sul concetto di genitorialità e sui rapporti famigliari. Lo fa Jim Jarmush nel suo “Father mother sister brother”, film in tre episodi che sono un tutt’uno nel raccontare come le famiglie sono tutte uguali, cambiano i particolari, di rapporti che abbandonati i tempi ingenui dell’età infantile, testimoniata dalle fotografie di quelli che furono, frizionano attraverso lo spettro dell’età adulta. Trovando spesso rifugio in bugie rassicuranti si finisce per conoscere poco le persone con le quali si condivide il gusto di vestire gli stessi colori come fosse il dna che ci scorre nelle vene.

Parla di paternità, quella mancata, e maternità, compromessa, “Orphan” di Laszlo Nemes, regista del pluripremiato “Il figlio di Saul”. Anche questa volta la terra e i tempi storici sono vicini di casa. Siamo a Budapest, ancora aperte le ferite lasciate dal sistema di sterminio degli ebrei alle quali si aggiungono quelle successive alla rivolta del 1957 soffocata dal regime comunista.

Andor è un ragazzino ebreo cresciuto con l’immagine idealizzata di un padre morto da eroe che vede il suo mondo crollare quando un uomo brutale, ai suoi occhi mostruoso, si presenta asserendo di essere il vero genitore.

E di mostruosa genitorialità parla il film di Guglielmo del Toro “Frankenstein”. Ancora un padre e un figlio, sui generis, nella messa in scena della famosa creatura di Mary Shelley, in cui il creatore risulta più violento e intransigente della creatura “mostruosa” da lui assemblata, per arrivare all’inevitabile conclusione che i veri mostri siamo noi.

Altro tema tra i film presenti alla Mostra, il lavoro e le conseguenze della tecnologia e di AI su di esso.

Il film in Concorso di Valerie Donzelli, “A pied d’oeuvre”, racconta la parabola di un fotografo affermato che decide di abbandonare tutto per dedicarsi alla scrittura, una scelta che lo porterà ad abitare un freddo scantinato a Parigi e a vivere di lavori occasionali, sottopagati, in cui è l’algoritmo che organizza la classifica di gradimento dei clienti a decidere della sua vita, in cui la flessibilità diventa una schiavitù a cui tutti ci sottoponiamo per monetizzare, e di conseguenza per essere liberi.

Cosa si è disposti a fare pur di riconquistare un posto di lavoro e non perdere la casa di famiglia in cui è raccolta la memoria passata e presente, e dove ci si immagina quella futura, lo racconta il sudcoreano Park Chan-Wook, regista di “Old boy”, “Lady vendetta” e “Decision to leave”, nel suo “No other choise”. 

Ispirato al libro "The Ax: cacciatore di teste” di Donald Westlake, dal quale già Costa Gavras nel 2005 ne aveva tratto un film, racconta la storia di un uomo che perde il lavoro e decide di uccidere tutti i concorrenti per riavere il posto.

Più ironico del solito nel raccontare la brutalità degli atti che dirigono le intenzioni del protagonista, che, come il titolo ci invita a pensare, stretto nella morsa di un mondo che sta cambiando, in una modernizzazione che espropria uomini ed emozioni, si spinge fino alle estreme conseguenze delle proprie ambizioni; in quella che è di contro un’elegia del passato, della tangibilità delle cose, della carta, dei vinili, il protagonista finirà per avere come unici colleghi bracci meccanici, e a dirigere i lavori Ai.

Di un ritorno alle tradizioni e a una cultura ormai stropicciata e malconcia, come lo sono i luoghi, del passato parla il film del taiwanese Tsai Ming-liang “Back home”. Film on the road attraverso la campagna laotiana che si dispiega in una serie di inquadrature fisse delle case che punteggiano il paesaggio rurale in un viaggio a ritroso in cerca delle proprie radici.

E di riconnessione con la natura e indirettamente con noi stessi parla “Silent friend”, film in Concorso della regista ungherese Ildiko Enyedi, in sentore di premi.

Protagonista del film un gingko biloba che da un secolo nel giardino botanico di Marburg, Germania, osserva le vite di tre personaggi vissuti in epoche diverse - 1908, 1972 e 2020 - costituendo un trittico che intreccia le loro storie personali al potere curativo e trasformativo delle piante, alla ricerca di un legame tra esseri umani e natura.

E se qualche anno fa la protesta verso le interferenze dell’Intelligenza artificiale nella produzione cinematografica, contro un sistema che per capitalizzare disumanizza l’arte di fare film, mettendo a rischio molte categorie del settore, aveva portato all’assenza di tutti i grandi divi hollywoodiani dal red carpet  veneziano, quest’anno in concorso tra i corti della Settimana della critica “The pornographer”, film interamente realizzato da Ai, ha vinto il premio assegnato dal Centro nazionale del Cortometraggio.

E film di chiusura della kermesse Fuori Concorso, “Chien 51” di Cedric Jimenez, è un rumoroso action movie distopico, in cui in un futuro non lontano a Parigi nessuno può sfuggire ad ALMA, intelligenza artificiale predittiva che ha rivoluzionato le forze dell’ordine.

Come ogni anno capita poi di vedere in Concorso film che si pensa avrebbero fatto meglio non esserci e fuori Concorso altri che avrebbero meritato di competere al leone alato.

In questa seconda categoria, “The last Viking” del danese Anders Thomas Jensen,  favola nera sulla libertà di poter scegliere la propria identità in una dark comedy che dà vita al viaggio surreale e grottesco di due fratelli, interpretati da un esilarante Mads Mikkelsen e da Nikolaj Lie Kass, in cerca della refurtiva di una rapina come della memoria perduta. Il film esplora il potere dello sguardo altrui nel plasmare la nostra identità, dimostrando che le persone non sono mai una sola cosa.

Dalle masterclass tenute durante la Mostra il suggerimento più eversivo a chi il cinema lo vorrebbe fare è arrivato da Werner Herzog, che alla Mostra ha presentato Fuori Concorso il suo ultimo lavoro “Ghosts elephants”, documentario che nelle corde del regista restituisce poesia, meraviglia e mistero alla realtà in cui viviamo, questa volta in Africa in cerca cerca di mitologici forse estinti giganteschi elefanti.

“Una delle cose più importanti che insegno nella mia scuola di cinema è falsificare documenti - ha detto Herzog durante la masterclass -. Nei Paesi con le dittature bisogna fare documenti falsi per girare i film, non concedono mai i permessi per far entrare le troupe”, alzandosi poi in piedi e mimando la fuga da un tentativo di arresto. “Mai guardare negli occhi i poliziotti - ha aggiunto - se avete il coraggio di fare una cosa del genere vuol dire che siete veramente motivati per entrare in questo mondo”.

Altra lapalissiana conclusione di questa edizione è che il divo è ancora made in Usa. Sono gli attori e i registi americani che hanno portato sul red carpet le strilla coi decibel più alti, i filari più folti di giovani e giovanissimi che in questi giorni hanno sostato, sole o maltempo, davanti al Palazzo del Cinema in attesa di ricevere dal proprio idolo un autografo, un selfie, o anche solo uno sguardo, un sorriso.